Numero 3 - ARTE E CULTURA DELLA POLITICA

La battaglia, la tranquillità

Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
SERGIO DALLA VAL
psicanalista, brainworker, presidente dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

ARTE E CULTURA DELLA POLITICA. LA BATTAGLIA, LA TRANQUILLITA'

“Le necessitati possono essere molte, ma quella è più forte che ti costringe o vincere o perdere” scriveva Machiavelli. Con il testo dello scrivano fiorentino la politica non è più l’arte del possibile, ma la via della necessità: dalla questione di vita o di morte alla riuscita, secondo l’occorrenza. Necessità non ontologica, occorrenza linguistica, poetica, pragmatica. Le cose “non aspettano tempo”, scrive, dunque occorre fare quello che occorre: non c’è scelta, fatta apposta per rimandare, indugiare, ritardare, stare a vedere, “Et, quanto alla neutralità, il quale partito mi par sentire approvare da molti – scrive Machiavelli a Vettori –, a me non può piacere, perché io non ho memoria, né in quelle cose che ho vedute, né in quelle che ho lette, che fosse mai buono, anzi è sempre stato pernitiosissimo, perché si perde al certo”.
Qual è la lingua della politica del tempo, dell’occorrenza e non della neutralità? Non quella degli animali politici, come Aristotele ha definito gli umani in quanto tutti, in quanto mortali. La loro lingua è il dialogo greco, con cui aver sempre ragione. Ma questa è la lingua del conflitto – “dei litiganti”, la chiamava Leonardo – la lingua di chi parla la propria, che deve imporre o difendere. Contro l’Altro. In questa lingua tutto deve tradursi e trasmettersi, interpretarsi e applicarsi, salvo essere messo al bando, come terzo escluso. Lingua unica e universale, lingua del conflitto che il patto sociale, l’alleanza finale, deve mediare e terminare. Con l’ultima guerra, con la guerra sempre ultima.
La guerra è sempre civile, è fatta in nome delle radici, dei fondamenti della propria civiltà. Come nota Assia Djebar, ogni fondamentalismo è religioso senza fede che non sia propria, è credente senza dio che non sia da applicare; adora e difende ciò che ha creato: la nostra lingua, le nostre origini, il nostro popolo. Può essere contro o nel rispetto di quelli degli altri: universi a confronto, diversi a confronto. Così a un fondamentalismo bellicoso, che è guerriglia sociale, scontro di forze, risponde quello pacifista, che è compromesso sociale, equilibrio di forze. Avere come fine la pace è un modo di trovarsi sempre in conflitto. Politica dei porcospini, direbbe Freud, distanti non tanto da avere freddo, vicini non tanto da pungersi. Politica zoologica: a ognuno il suo genere e la sua specie di aristotelico ricordo, con un denominatore comune: la morte.
Fondamentalismo: ogni monoteismo più paganesimo, cioè senza l’infigurabile, l’irrappresentabile, l’inconcepibile; così ognuno può farsi dio, anche nel senso di costruirselo a suo uso e consumo, e combattere ogni Satana come presume abbia fatto dio, e abbattere ogni torre come presume abbia fatto dio. Bin Laden sa cosa vuole dio, e esegue. Il fondamentalismo resta nel dialogo greco, manca l’invenzione straordinaria dei monoteismi: il nome non può nominarsi, lo zero non azzera. Da allora dio e la scrittura non possono divenire idoli, cioè fondamenti, radici, patrie della parola, come vuole ogni naturalismo e zoomorfismo politico, da Aristotele a Hobbes, Per questo, come nota Verdiglione nell’intervista in questo numero, il fondamentalismo arabo non si oppone alla politica occidentale, quella degli animali politici, bensì partecipa più al logo greco che ai monoteismi ebreo, cristiano, islamico. Gia Freud aveva indicato che la politica nel discorso occidentale deve fondarsi sul fatto di morte, l’assassinio del padre, da cui viene l’alleanza sociale che spartisce il potere tra i fratelli e l’ordine genealogico che regolamenta la sessualità, a partire dall’animale totemico, secondo i criteri dell’identità e della diversità sessuali/sociali. Come non notare che in questa politica dell’incesto si tratta dei principi d’identità, di non contraddizione e di terzo escluso di cui Aristotele ha nutrito Alessandro, il primo imperatore?
La lingua dei litiganti, del conflitto sociale e di classe è il logo d’Aristotele e del pensiero greco, non del monoteismo. Non c’è più logo se la politica è questione di civitas più che di polis, di Gerusalemme, Roma, New York più che di Atene, Bisanzio, Kabul. Il secondo rinascimento esige una politica dell’Altro, non dell’incesto: politica della città temporale, dell’infinito, dell’ospite, non della polis geometrica, del finito, del terzo escluso.
“Necessità fa virtù”, scrive Machiavelli, alludendo a una politica che si attenga all’occorrenza delle cose che si fanno, non al possibile o al probabile del pacifismo sociale. La battaglia non finisce, la battaglia decide della guerra, che non è politica con un altro nome, è quest’altra politica intellettuale, imprenditoriale, industriale. Mentre la necessità della politica è la necessità del riferimento alla morte, che fa la verità del legame sociale e dell’ordine simbolico. Ma per l’autore del Principe è il tempo a governare le cose, non la morte. Se esiste la fortuna, i giochi non sono fatti: il tempo viene facendo, e non finisce.