Numero 3 - ARTE E CULTURA DELLA POLITICA

La battaglia, la tranquillità

Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
ASSIA DJEBAR
Sostenitrice dell’emancipazione femminile nel mondo islamico, vive tra la Francia e gli Stati Uniti, dove dirige il “Center for French and Francophone Studies”, in Lousiana. L’abbiamo intervistata in occasione della presentazione del suo ultimo libro Bianco d’Algeria (2001), all’ITC Teatro di San Lazzaro (Bologna), il 1° novembre.

LA QUESTIONE INTELLETTUALE CONTRO I FONDAMENTALISMI

intervista di Anna Spadafora

Con i fondamentalismi, la religione sembra sovrapporsi alla politica e ai diritti civili, negandoli, in particolare rispetto alle donne e ai giovani. Cosa possono fare le donne perché si dissipino i fondamentalismi?

Purtroppo, ci sono anche donne fondamentaliste. Non è una questione di donne o di uomini, ma di non prendere i testi religiosi alla lettera, di distinguere tra la lettera e lo spirito. Quindi, è una questione intellettuale.
La prima volta che sono entrata in una chiesa ero in Spagna, provenivo dal Marocco, con un’amica francese. Siamo entrate per ammirare la struttura architettonica; prima, però, con grande rispetto per la mia amica che era molto credente, ho messo un foulard in testa. Abbiamo guardato quello che c’era da guardare dal punto di vista artistico, ma quando siamo passate davanti all’altare io non mi sono genuflessa. C’era un’anziana che mi osservava e mi sorvegliava e quando ha visto che non mi sono genuflessa si è lanciata contro di me come una furia, nonostante io volessi spiegarle che non ero cristiana, e voleva addirittura chiamare il curato perché mi cacciasse via. Questa è stata la prima volta che ho incontrato l’intolleranza religiosa.
Un’altra volta, in Marocco, sempre con un’amica storica dell’arte, siamo entrate in una moschea. Ma quando siamo uscite, c’erano una cinquantina di persone che ci hanno circondato e ci hanno linciato perché ci hanno scambiate per europee. A un non musulmano non è permesso entrare in una moschea, dicevano. Io ho parlato loro in arabo e ho spiegato che in Algeria non si può farlo soltanto se è in corso la preghiera.
Insomma, se si applicano i testi religiosi, qualunque sia la religione, propria o acquisita, si diventa intolleranti.

Qual è l’apporto delle donne, in particolare islamiche, alla civiltà della pace?

Le donne possono contribuire alla cultura della pace dissipando il matriarcato. Non sono contro le madri, ma la madre è depositaria della trasmissione al figlio, il matriarcato è conservatore, mentre la cultura della pace è una cultura in cui la differenza va affrontata, può essere accolta o meno, ma occorre che ci sia, occorre dare la possibilità di fare le cose ritenute giuste e quelle ritenute sbagliate. Penso che la mamma fin dall’inizio sia troppo occupata a conservare la salute del bambino, a dargli gli anticorpi necessari, soprattutto attraverso l’allattamento. Ma questa è un’altra questione. Penso che le donne, come gli uomini, in quanto genitori, siano troppo impegnati a assicurare la continuità, siano troppo egoisti. Forse esistono anche madri eroiche, ma ritengo che le donne divengano più tolleranti soltanto quando sono disposte a correre dei rischi, a fare dei passi loro stesse.
Evidentemente, nel mio Paese, per le donne è molto più difficile assumere dei rischi. Ma se vogliamo capire quali possono essere i contributi pratici delle donne a un altro modo di vivere, possiamo fare due esempi.
Primo esempio: le donne architetto. In Algeria, l’architettura esige che nelle abitazioni siano eretti muri sempre più alti. In un mio film, c’è una donna architetto che vuole le case fatte completamente di vetro. Da quando vivo a New York ho un po’ cambiato idea, forse il vetro a un certo punto stanca – perché ci sono troppi riflessi o perché è freddo –, ma la donna architetto è questa, colei che trasforma il modo di concepire la casa e il giardino.
Secondo esempio: ai tempi della rivoluzione algerina, quando avevo quattordici anni, per una donna era impensabile potere attraversare il villaggio in bicicletta. Oggi a sessant’anni non so ancora andare in bicicletta, perché quando la presi all’epoca ci fu chi mi disse che non potevo mostrare le gambe. L’anno scorso in Louisiana ho convinto una mia studentessa italiana a venire al supermercato per comprare una bicicletta, ma, dopo essere caduta, ho rinunciato. Questo è il tributo che ho pagato all’assenza di libertà iniziale.