Numero 1 - L'Economia Nuova

La trasformazione nel lavoro, nella vendita, nell'impresa

Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
EMILIO FONTELA
docente di Economia alle Università di Ginevra e Madrid

COME DIVENIRE IMPRENDITORE NEL VENTUNESIMO SECOLO

Nel mio libro Come divenire imprenditore nel ventunesimo secolo, ci sono tre capitoli dedicati a tre grandi funzioni del cambiamento: il primo si occupa della società post-economicista e della società dell’informazione, il secondo della globalizzazione della finanza e il terzo dell’Europa e del suo futuro, importante per il futuro delle imprese europee. Dunque, è un libro di prospettiva, si occupa di cose che stanno già accadendo ma che dovrebbero avere importanza sopra tutto fra qualche anno.
Nel 1930, Keynes scrisse che con l’evoluzione tecnologica il problema economico, inteso come il problema della scarsità dei mezzi e delle risorse, si sarebbe risolto nell’arco di cento anni: adesso siamo a settant’anni dalla sua previsione, per cui nel 2030 dovremmo averlo più o meno risolto. Questo non vuol dire che non ci sarà più l’economia, ma che il problema fondamentale dell’economia, la lotta contro la scarsità e l’ottimizzazione delle risorse scarse, non ci sarà più. La situazione attuale gli dà abbastanza ragione: rispetto al 1930, tutti i paesi sono molto più ricchi, non solo quelli industrializzati.
Negli ultimi dieci anni, ci sono state due grandi evoluzioni che hanno avuto molte conseguenze sul futuro. La prima prende avvio dalla caduta del muro di Berlino, che ha marcato la fine di una guerra ideologica, una guerra tra il liberalismo economico e il socialismo pianificatore, tra mercato e pianificazione. Anche se può non essere una vittoria definitiva, sembra che con la caduta del muro di Berlino abbia vinto il mercato, perché non s’intravedono movimenti di reazione sufficientemente forti contro di essa. La seconda riguarda l’avvento della società dell’informazione, ossia la coincidenza nel tempo tra computer, capacità di calcolo, capacità di memoria, da un lato, e telecomunicazioni e microelettronica, dall’altro. Combinando un po’ di microelettronica, un po’ di informatica, un po’ di comunicazione, si ottiene un cocktail tale che, qualunque cosa venga fuori, è un’innovazione importante. Ecco perché si parla di nuovo paradigma tecnologico della società dell’informazione: un cocktail esplosivo di nuove tecnologie sta rivoluzionando sia i sistemi produttivi sia i prodotti, tanto i beni quanto i servizi, al punto che tutto ciò che utilizziamo quotidianamente, anche una bottiglia d’acqua, ha un contenuto di società dell’informazione.
Quali sono le conseguenze di queste due evoluzioni, la vittoria del mercato e lo sviluppo della società dell’informazione, nell’economia? Prima di tutto, il fenomeno della globalizzazione. Il processo di globalizzazione corrisponde a un avvento del mercato al di sopra delle nazioni. A dire il vero, il mercato già prima non era nazionale, non c’era ragione perché un mercato, portato alle sue ultime conseguenze, fosse nazionale. Adam Smith intitolò il suo famoso libro La ricchezza delle nazioni, ma in astratto il mercato ideale non ha frontiere, perché non c’è ragione per cui un mercato di una nazione debba essere diverso dal mercato di un’altra. A partire dal trionfo dell’economia di mercato, il mercato diventa globale. Questo è osservabile in primo luogo nel campo della finanza, che è stato il primo a essere globalizzato, per diverse ragioni: prima di tutto per una ragione tecnologica, perché la finanza non trasporta beni, ma numeri che viaggiano utilizzando i canali informatici, senza costi di trasmissione, se non quelli relativi alle commissioni degli istituti che eseguono le operazioni.
Nel 1945, quando è stato fatto l’accordo di Bretton Woods, Keynes e altri economisti presenti hanno avuto un’enorme paura della speculazione finanziaria, cosicché i movimenti finanziari di capitale, a breve e lungo termine, sono stati bloccati. Dopo l’accordo di Bretton Woods, il controllo sui movimenti di capitale era assoluto, non si potevano cambiare neppure gli spiccioli, l’Inghilterra non lasciava uscire dal paese neanche una lira sterlina. Questa situazione è nata dalla paura dei movimenti speculativi di capitale che avrebbero provocato delle crisi finanziarie tra le due guerre. Ma intorno agli anni settanta, quando Nixon ha sollevato il problema della convertibilità del dollaro, c’è stata una serie di avvenimenti che ha provocato l’interesse dei paesi e dei sistemi finanziari all’apertura dei mercati. Tra l’altro, molti paesi fortemente indebitati hanno pensato che sarebbe stato un bene ricevere prestiti da altri mercati di capitali. E così è incominciata, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, una straordinaria corsa alla liberalizzazione di movimenti di capitale, una corsa che ha portato alla situazione attuale, in cui non ci sono praticamente controlli e ciascuno può comprare un’azione su qualsiasi mercato. Vi ricordo che questo era assolutamente proibito a cavallo tra gli anni settanta e ottanta: chi portava soldi in Svizzera era evasore fiscale.
Dunque, grazie alle nuove tecnologie, il primo mercato globale è stato quello finanziario. La globalizzazione delle finanze fa sì che, sullo stesso mercato mondiale, s’incontrino tutti i risparmiatori e tutti gli investitori. Ho impiegato molto tempo per capire di che cosa si tratta nella finanza, finché sono arrivato alla definizione che la finanza è la parte dell’economia che trasforma il risparmio in investimento, mentre l’economia reale trasforma l’investimento in risparmio. La globalizzazione dell’economia finanziaria fa sì che ci troviamo in una situazione in cui i risparmiatori del mondo intero s’incontrano con gli investitori del mondo intero. Ciò vuol dire che il risparmiatore di Modena, per esempio, attraverso circuiti a volte complicatissimi, s’incontra con un investitore della Corea. Questo ha cambiato totalmente l’impresa. Infatti, nell’impresa tradizionale, quella familiare, quella dinastica, in cui il risparmiatore e l’investitore sono la stessa persona, l’imprenditore guadagna dei soldi e li risparmia – un buon capitalista familiare non spende ma risparmia – in modo da poter reinvestire. Questo era il modo più efficace, il primo modo di fare finanza, quando non c’era neppure bisogno delle banche. Poi è venuto il banchiere, un signore gentile, che conosceva risparmiatori da una parte e investitori dall’altra e li metteva in contatto: era il caso del banchiere genovese che finanziava le avventure spagnole, sapeva chi aveva i soldi e dove trovarli; era un’intermediazione molto semplice. Poi è arrivata la borsa, che ha trasformato parecchio l’intermediazione. Poi sono intervenuti gli intermediari finanziari e, infine, il mercato dei futures e delle opzioni, che ha complicato ulteriormente il sistema. L’obiettivo finale di tale complessità è migliorare la relazione tra il risparmiatore e l’investitore. I risparmiatori italiani hanno bisogno di sicurezza e di redditività, che forse non trovano in questo momento negli investimenti in Italia? Possono trovarle altrove, attraverso questo o quell’altro circuito. Gli investitori italiani non trovano risparmiatori adeguati ai loro rischi? Allora, partono in questo circuito e vanno a cercare i soldi che occorrono loro.
La conseguenza di tutto ciò è che un’impresa, se vuole sviluppare nuovi investimenti e creare nuove imprese, deve convincere dell’interesse del suo progetto il mercato finanziario internazionale, vale a dire il risparmio internazionale. E questo può farlo essa stessa, come avviene nel caso di grandi imprese; allora, accade che un’impresa dell’economia reale incominci a diventare un’impresa di economia finanziaria. E ci sono casi di imprese miste, come per esempio una società svizzera che abbia il 50% dei suoi utili da operazioni finanziarie e il 50% dalla vendita delle macchine che produce. A mio avviso, però, un’impresa che diventi finanziaria è pericolosa, perché lo spirito dell’economia reale non è quello della finanza, che invece è uno spirito di gioco, un gioco in cui si assumono dei rischi, si vince o si perde, come sta accadendo in questi tempi.
Per avere accesso diretto alla finanza globale, molte imprese hanno portato al loro interno specialisti finanziari in grado di richiedere crediti, fare operazioni in borsa, traslazioni sui mercati del futuro, ecc. Con il risultato che lo spirito di speculazione è penetrato nello spirito di molte imprese produttive. In ogni momento storico ci sono stati speculatori e produttori, e c’era bisogno di entrambe le categorie perché senza gli speculatori i produttori non possono funzionare efficacemente. Ma c’è sempre stato un equilibrio. Se invece, per una ragione qualunque, lo spirito di speculazione dovesse penetrare troppo nello spirito d’impresa il problema si complicherebbe.
Dunque, qual è la soluzione per un’area come Modena, o Bologna o altre città d’Italia, dove non ci sono grossissime imprese, ma piccole e medie, in un distretto industriale con molti imprenditori dell’economia reale? Far sì che diventino finanziarie? Secondo me, l’ideale è rinforzare moltissimo il sistema degli intermediari finanziari locali, bisogna ritornare ai mercati finanziari locali connessi con il sistema mondiale, ma professionalizzati. Chi deve assumere il rischio finanziario è la cassa di risparmio, la banca e i vari operatori del settore, non l’impresa A, l’impresa B o l’impresa C. Questo è un orientamento che mi sembra importante rispetto all’orientamento generale. Purtroppo, sono convinto che in molti casi oggi l’impresa pensa di trovare soluzioni importando un finanziere al suo interno: vorrei mettere in guardia le imprese italiane contro la tentazione della “finanziarizzazione” dell’economia reale. Per diverse ragioni, tecnologiche, di mercato, ecc., l’attività finanziaria ha avuto un’esplosione, ci sono centinaia di migliaia di persone che lavorano nella finanza, creano ricchezza, tanto che ci si può domandare se in questo momento il funzionamento del sistema finanziario non sia più importante di quello dell’economia reale. Se si accetta questo dato di fatto, allora, le tasse devono spostarsi dall’economia reale a quella finanziaria, tanto più perché l’economia finanziaria a volte fa correre dei rischi per la collettività. Per questo motivo, la Tobin Tax è una modesta arma per il sistema fiscale.
Un’altra questione che voglio affrontare è il futuro del lavoro. Nel mio libro Sfide per giovani economisti, ho parlato di uno studio statistico sulle ore di lavoro in Germania: dividendo il numero totale di ore annue disponibili della popolazione tedesca, otteniamo che essa lavora due ore su ventiquattro, cioè più o meno l’8% del giorno. È indiscutibile, le statistiche sono ufficiali: due ore bastano per fornire un’economia che provvede a produrre i beni per le altre ventidue. Ma questo vuol dire che si lavora meno? Tutt’altro: risulta che sono state ridotte le ore di lavoro regolate, le ore di lavoro contrattuali, mentre, d’altra parte, assistiamo all’esplosione di un altro lavoro che non ha più orari, che è impiego del e nel tempo libero.
Ma se le frontiere tra lavoro regolato e non stanno cambiando profondamente, dove vanno cercati i nuovi posti di lavoro? Fra i gruppi di gente che non è più interessata al lavoro regolato, fra i ricercatori, che lavorano durante le vacanze, pensano mentre si fanno la barba al mattino, pensano quando occorre, non quando gli chiedono “tre ore di pensiero”! Per gli imprenditori è la stessa cosa: non è possibile chiedere “cinque ore di spirito d’impresa”! L’imprenditore non ha orari, può lavorare nei week-end, di notte, e il suo non è più neanche un lavoro ma il piacere di essere imprenditore, di fare qualcosa. E nel frattempo stanno scomparendo quei lavori in cui l’uomo fa quello che potrebbe fare una macchina, perché nei lavori meccanici un computer lavora meglio di un uomo. C’è ancora tanta gente non qualificata che lavora, ma tra poco non lavorerà più, a parte nei lavori di pulizia, nei servizi alla persona e nella sicurezza.
Allora, perché l’imprenditore è il punto chiave di questo nuovo sistema? Perché l’imprenditore deve lavorare con un brainworker, con un “lavoratore di cervello”, o come altri dicono, “lavoratore della conoscenza”. Deve essere lui stesso un brainworker, lavorare con persone che possano risolvere i problemi, con ricercatori che trovino nuove soluzioni. Ma deve lavorare anche con i socialworker, quei lavoratori che hanno la vocazione di servire gli altri e che costituiscono un’immensa massa di organizzazioni per l’assistenza, il servizio pubblico e la cultura, un’attività non produttiva ma che è diventata veramente importante per la società. Infatti, mentre spariscono progressivamente i lavori più limitati, aumentano sempre più i lavori creativi. La cultura e l’arte, quindi, diventano sempre più fattori determinanti. Ma non c’è nessuna contraddizione con la ricchezza economica: al contrario, la cultura e l’arte sono attività che faranno della società futura una società competitiva.
Dopo la finanza, anche le imprese diventano globali. Dopo la crisi finanziaria, tutti i paesi si erano tutelati con il protezionismo commerciale. Accanto al blocco dei movimenti di capitali, Bretton Woods decise di liberalizzare i movimenti commerciali. In questo momento abbiamo messo in moto un meccanismo di liberalizzazione totale dei mercati che conduce necessariamente a una globalizzazione dei mercati reali su scala planetaria. In Europa abbiamo eliminato tutte le barriere, creato il mercato unico, andiamo verso la moneta unica e stiamo creando un grande mercato europeo. Ma la stessa cosa sta succedendo su scala mondiale, attraverso gli accordi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio con altri organismi. Questa mondializzazione dell’economia reale, anche se è più lenta, sta provocando conseguenze preoccupanti. Prima di tutto, la concorrenza fra territori. Se l’economia reale diventa globale e, dunque, tutto il mondo può essere base produttiva, immediatamente si stabilisce una concorrenza fra i territori del mondo, per ospitare le nuove attività produttive. Per esempio, c’è un’industria automobilistica che vuole collocare una nuova attività produttiva di automobili in Europa. Ciascun paese spera di attirare verso di sé quel ramo di economia reale che si sta globalizzando. Le imprese non sono stupide, incominciano ad adoperare le strategie del caso e cercano di mettersi sul mercato. È una tendenza pericolosa, perché nello stesso modo in cui questa impresa globale sceglie il suo posto di ricaduta, domani può sceglierne un altro, non c’è nessun vincolo tra l’impresa globale e il territorio. Le società globali hanno una strategia sovra nazionale e non hanno interesse per i fatti nazionali, ma soltanto per quelli dell’impresa. Se c’è da approfittare dei bassi costi del lavoro o della situazione di sottosviluppo che può esistere in Thailandia, non c’è nessun problema etico o giuridico che impedisca di farlo.
Questo è un problema grave, perché l’impresa non è soltanto una macchina per guadagnare soldi, ma un’attività che offre opportunità di sviluppo umano e creativo nel territorio. E, dunque, bisogna reagire. L’unica maniera di reagire è consentire alle imprese del territorio di nascere e svilupparsi. Per questo, il sistema imprenditoriale italiano dei distretti industriali, come in Emilia e nel Nord Est, è il sistema del futuro, è imitato in vari paesi, perché è l’unica possibilità del territorio di reagire contro la globalizzazione dell’impresa, non lasciando che se ne vada ma invitandola a approfittare delle radici locali, delle diversità locali, che diventano elementi competitivi. Mi sembra che il modello dell’Italia del centro nord sia intelligente, un modello in cui si moltiplichi la capacità imprenditoriale – perché le imprese sono numerose –, si sviluppi un concetto di cooperazione-concorrenza fra imprese, che in tal modo si arricchiscono fra loro.
In una determinata regione, come si può costruire un’imprenditorialità locale basata sulla diversità? Per la teoria contemporanea sono tre i grandi fattori della competitività imprenditoriale diversi da quelli dell’industria tradizionale: il capitale umano, ossia la disponibilità, nel territorio, di processi di sviluppo del sapere, della conoscenza, dell’intelligenza, è il primo fattore che fa sì che una regione, anche se non attrae il capitale mondiale, riesca a trovare delle opportunità costruttive per il proprio futuro; il secondo è il processo di accumulazione del capitale tecnologico, ed effettivamente è giustificato l’investimento nelle nuove tecnologie, accanto a nuovo capitale umano, quando si costituisce una società territoriale avanzata; il terzo è la necessità di un funzionamento organizzativo altamente efficiente, compresi gli ordinamenti del diritto. Ciò che fa la forza dei territori, quindi, è un’ottima capacità organizzativa, insieme a un capitale umano ben sviluppato e una buona base tecnologica. Questo comporta che, nello sviluppo territoriale, a parte l’impresa, oggi intervengano due agenti estremamente importanti che finora non erano coinvolti nello sviluppo imprenditoriale.
Uno di essi è l’università, che è la base per la formazione del capitale umano e di quello tecnologico. L’università è un motore della competitività territoriale. Nell’università si formano gli imprenditori, per esempio, nello spin-off si forma il tecnico per lo sviluppo di tutte le attività di rete. Dunque, l’università non può più come in passato chiudersi nella sua torre di Babele alla ricerca del bene comune: deve ricordare che il bene comune incomincia con il bene specifico del territorio in cui è situata. Dunque, bisogna aprire le università al tessuto industriale e imprenditoriale, sviluppando legami con le imprese sia per la formazione superiore, sia per la ricerca. Un’università aperta ai problemi dell’impresa praticamente oggi non esiste. In Europa l’università è ripiegata su se stessa e vede negativamente non soltanto la relazione dell’accademico con il teorico, ma anche dell’accademico con l’industriale. Questo è un errore fondamentale perché, per sopravvivere, le industrie dell’Emilia Romagna hanno bisogno di un’università aperta ai loro problemi. Per università si dovrebbe intendere tutto il mondo della conoscenza, le fondazioni culturali comprese.
Il secondo funzionamento chiave è quello organizzativo: bisogna che funzioni tutto, dal trasporto pubblico alla sanità, al sistema di smaltimento dei rifiuti, alle legislazioni lavorative. Il sistema organizzativo fa sì che l’amministrazione pubblica sia obbligata anch’essa a cambiare il suo orientamento: se la sua attività è basata sopra tutto sulla difesa del patrimonio pubblico, deve trasformarsi in fornitrice di servizi alla comunità produttiva.
Questi due agenti sociali finora guardavano con un certo distacco l’attività imprenditoriale: gli imprenditori erano visti come gente di poco conto, molto distanti dall’università, dall’amministrazione e dalla politica.
Oggi occorre un’altra mentalità, perché lo sviluppo imprenditoriale dipende dalla cooperazione fra università, impresa e amministrazione pubblica. Le società, le imprese che trionferanno nel futuro saranno quelle che sapranno vivere il fenomeno della globalizzazione finanziaria e il fenomeno della globalizzazione dell’economia reale con l’appoggio del territorio, in particolare dell’università e dell’amministrazione pubblica.
Nel mio libro sottolineo inoltre che le imprese devono trasformarsi da reattive a proattive, cioè devono sempre più anticipare la domanda, anziché rispondere a essa. Se alcuni distretti italiani del Nord Est o dell’Emilia Romagna si trovano in difficoltà in questo momento, senza dubbio è perché manca loro la visione a lungo termine. Se un’impresa del settore abbigliamento si concentra sulla moda “pret-à-porter”, senz’altro fa qualcosa di molto produttivo, ma anche di molto pericoloso, perché ogni volta che interviene qualche cambiamento – per esempio un paese sottosviluppato entra nella produzione, o alcuni capi vengono prodotti via internet, a Taiwan –, rischia di sparire.*

*Il testo qui pubblicato è tratto dagli interventi di Emilio Fontela a Bologna (Sala della Provincia e European School of Economics), Ferrara (Camera di Commercio), Modena (Dipartimento di Scienze Giuridiche e Nuova Didactica)