Numero 3 - ARTE E CULTURA DELLA POLITICA

La battaglia, la tranquillità

Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
PIERO FORMICA
docente universitario, giornalista, saggista

LA CITTA' DI BOLOGNA TRA CONTINUITA' E INNOVAZIONE

A proposito di un certo modo di fare politica, Karl Popper parlava di “pianificatori a spizzico”. Un “pianificatore a spizzico” è molto modesto nei suoi approcci, poiché limita il proprio obiettivo al minimo necessario. Mi sembra questa la figura del sindaco di Bologna Guazzaloca, anche se qualificandolo così non intendo darne un’immagine negativa, tanto più dopo cinquant’anni d’amministrazione costituita da pianificatori a tutto tondo, un po’ come i francesi, che fanno piani cartesiani, bellissimi, ma che non possono funzionare, sono troppo precisi. Ma proprio questa mentalità del far le cose un po’ a spizzico ha la controindicazione di portare a non far capire se ci sia una visione di fondo e quale essa sia.
La politica dovrebbe esercitarsi con passione. Dopo cinquant’anni di un certo modo di far politica, di un certo modello, ci si aspettava di vedere, proprio come in Via col vento, una grande scena di cambiamento, di passione. Cambiamento e passione che non si scorgono all’orizzonte. A mio parere, c’è un problema di fondo, non soltanto bolognese, ma che a Bologna ha trovato una sua attuazione profonda, che rappresenta una grossa continuità con il passato: fare politica, fare nel sociale con piglio corporativo. C’è un trait d’union tra il modello precedente e l’attuale modello Guazzaloca, e non è il trait d’union nella pianificazione, nel programmare, in cui invece vedo una frattura, uno iato. C’è invece una continuità nel modello corporativo: ogni volta che si deve fare qualcosa di concreto, ecco che si devono interrogare le corporazioni, senza le quali nulla si muove.
Ora, le corporazioni sono come Giano bifronte. Per esempio, i pescatori norvegesi del pesce che viene trasformato in stoccafisso erano membri di una corporazione. Ogni partecipante alla corporazione poteva pescare quantità di pesce variabili a seconda della dimensione della sua famiglia; quindi, c’era un’autoregolazione e un tacito consenso circa l’espansione. Ma questo consenso tacito e l’autoregolazione, purtroppo, nel tempo sono venuti a mancare. E allora accade quella che gli inglesi chiamano “la tragedia dei pascoli in comune”. Se in un pascolo comune si ritrovano dieci mandriani di gregge e uno di loro aggiunge altre dieci pecore al suo gregge, ne ricava un vantaggio pari a dieci, mentre il danno equivalente sarà per lui solo di un decimo poiché lo ripartirà con gli altri nove pastori. Al vantaggio massimo di un mandriano corrisponde un danno minimo per tutti gli altri. Quello che appare un gioco innocuo diventa, però, per niente inoffensivo allorché tutti i pastori vorranno comportarsi allo stesso modo. A meno che non prevalga uno spirito di autoregolamentazione, alimentato magari da comportamenti cooperativi, il gioco volgerà in tragedia.
Noi, in tanti anni, in Italia, abbiamo evitato la tragedia con l’arma del debito pubblico: per soddisfare le richieste di tutti si spalmava generosamente la spesa pubblica. Così, abbiamo potuto accontentare gli ingegneri, gli avvocati, gli architetti, i professori, i tassisti, gli addetti al trasporto pubblico, quelli del gas, dell’acqua e della nettezza urbana, e così via elencando. Questo rimedio velenoso, fortunatamente, è venuto a mancare. Eppure, a Bologna non si è dismesso lo stile di far politica attraverso le corporazioni. Ecco allora che tutta la macchina pubblica non è organizzata dal lato della domanda (ciò che chiedono i cittadini), bensì dal lato dell’offerta (ciò che si offre). Tant’è che capita spesso di leggere nel nostro paese frasi come: “Il servizio pubblico non viene valutato sulla base di quello che fornisce, ma di quanti impieghi assicura”. Insomma, l’organizzazione dei servizi viene modellata sul corpo del soggetto pubblico che li offre ed è basata su un meccanismo che deve soffocare la competizione per favorire – dicono i sostenitori del modello – accordi cooperativi. Solo che quando non c’è più concorrenza, la cooperazione degenera in collusione, in accordi di tipo oligopolistico, anche segreti, come accadeva in passato, per esempio, nelle grandi imprese produttrici d’acciaio. Non per nulla negli Stati Uniti si varò una politica antitrust. La Giunta Guazzaloca non rappresenta una discontinuità rispetto a questo modello. La città continua a essere organizzata non dal lato della domanda e dei bisogni dei cittadini, ma dal lato dell’offerta, dal lato della mano pubblica che li elargisce proteggendo le organizzazioni che essa stessa ha messo in piedi per fornirli.
Al fenomeno corporativo se ne aggiunge un altro, che rappresenta ancora una volta una continuità con il passato. In Italia, ma non solo, in tutti i paesi latini, non c’è l’equivalente dell’espressione inglese corporate governance. Organismi che gestiscono denaro pubblico, direttamente o indirettamente, dovrebbero avere una corporate governance, non solo le grandi multinazionali e le imprese private in generale. Una buona corporate governance porta alla trasparenza nei processi di nomina e nei processi decisionali. Questo avviene attraverso la nomina di consiglieri di amministrazione indipendenti, in quanto persone non solo non iscritte ai partiti, ma con le seguenti caratteristiche: non lavorano nella città dove esercitano il ruolo di consiglieri di amministrazione; se ci lavorano, il loro fatturato locale non copre più di una modesta quota del complessivo; non possono essere revocate se non per ragioni di etica, e le ragioni di etica devono essere elencate nello statuto. In definitiva, sono persone non executive, che hanno il compito di controllori; non sono i sindaci, controllori di bilanci, ma controllori del modo di funzionare del governo dell’azienda. Esistono nelle nostre aziende, con le nuove nomine, consiglieri di questa natura? Presso la SEABO, l’ATC e così via? Esiste, nel Comune di Bologna, qualcuno che solleciti una buona corporate governance?
Dalla corporate governance discende poi un’altra parola poco divulgata anch’essa in italiano, che è l’accountability, che non è il far di conto, ma significa che chi detiene il potere deve spiegare con estrema trasparenza chi è e che cosa sta facendo. Se le valutazioni del governo di un’azienda, le indicazioni dei processi decisionali sono interne al consiglio d’amministrazione e sono tenute segrete, opache rispetto alla società, questo rappresenta, ancora una volta, una continuità rispetto al passato, restando ancora nel solco del principio dell’asimmetria dell’informazione, per cui c’è chi ha un’informazione maggiore, il consiglio d’amministrazione delle società in mano pubblica, e chi ne ha di meno, il cliente o l’utente, che così è danneggiato, perché periferico al processo informativo. A me non pare che la giunta Guazzaloca stia adoperandosi per promuovere processi decisionali che consentano di risolvere questa asimmetria informativa.
Da queste considerazioni discendono poi degli esempi pratici. Che cosa vuol fare la Giunta di SEABO? Privatizzare per fare cassa, o intende invece creare un meccanismo che liberalizzi il mercato? Sono scelte diverse. Passiamo da un monopolio pubblico a uno privato, o apriamo al mercato? Chiediamo alla Giunta: ci sarà libertà d’ingresso nel mercato? Al di là delle leggi nazionali, dello stato centrale, il governo locale che ne pensa? È più per la privatizzazione, che porta cassa al Comune, o è piuttosto per liberalizzare? Tra qualche giorno, poi, con l’euro, potremo capire quanto costa un metro cubo di gas a Manchester e quanto a Bologna, e se vedremo che in Italia il gas costa molto di più, capiremo che una delle ragioni è questa: da quando il gas, in alcuni paesi, è stato liberalizzato, per esempio in Inghilterra, le bollette delle famiglie sono state tagliate del trenta e più per cento. Allora, quale disegno persegue il Comune? Anche qui si intravvede una continuità rispetto alla Giunta Vitali.
Un’altra continuità è rappresentata dallo scarso impulso che l’autorità locale sta dando alla nascita di imprese innovative. Le imprese innovative accelerano il metabolismo della città, perché le imprese nascono, crescono e muoiono, come gli individui. Particolarmente, le imprese familiari hanno la sindrome dei Buddenbrook, muoiono dopo la terza generazione. Le imprese familiari europee che hanno più di cento anni sono poche, formano un club ristretto. Allora, un metabolismo elevato è importantissimo. Cosa può fare un’autorità comunale? Ha due strade da perseguire. Una è la continuità: i fondi europei, la piccola agenzia pubblica o parapubblica. La precedente amministrazione si era incamminata lungo quel percorso, irto di ostacoli burocratici e quanto mai inefficiente. C’è un’altra strada che stanno percorrendo in Olanda, nelle città tedesche e scandinave, perfino nei paesi dell’Est Europa: i Comuni si fanno promotori della nascita di fondi di capitali di semina, seed capital, da seed, il “seme”. Questi fondi, cui partecipano anche banche e privati servono per sostenere la nascita di nuove imprese. Ma non soltanto con denaro, perché l’impresa che nasce, ancor prima che di denaro, ha bisogno di sostegno manageriale, necessita di qualcuno capace di innescare il processo che immette l’impresa nel mercato mondiale. I fondi vengono gestiti in modo imprenditoriale, da persone che hanno capacità imprenditoriali nel maneggiare questo tipo di attività. A Bologna si era fatto poco nel passato, e oggi nulla di più.
I fondi inietterebbero nel tessuto economico risorse finanziarie e competenze commerciali nella prospezione dei mercati futuri ed emergenti per la semina e l’avvio di iniziative imprenditoriali innovative. Nell’età industriale è stata la famiglia a ricoprire il ruolo di capitalista di semina, mentre di esplorare i mercati non si avvertiva la necessità, essendo la domanda mondiale abbondante ed eccedente l’offerta, e i meccanismi per cogliere i fabbisogni dei consumatori facilmente comprensibili. Oggi la famiglia continua a svolgere il medesimo compito, ma il suo è ormai un intervento di supplenza che appare insufficiente non solo o non tanto dal punto di vista finanziario quanto soprattutto sotto il profilo culturale. Il mutamento radicale del clima commerciale, che ha fortemente innalzato il grado di sofisticazione dei consumatori, ha poi reso obsolete le tradizionali ricerche per allinearsi al mercato. L’uno e l’altro fenomeno chiamano in causa quelle competenze molto specialistiche che i fondi potrebbero assicurare.
Ancora, i fondi permetterebbero di coltivare le imprese imprenditoriali a rapido e alto tasso di crescita. Contrariamente alle piccole imprese che restano tali a distanza di diversi anni dalla loro nascita, le imprese imprenditoriali sin dai primi vagiti entrano in una fase di crescita veloce e sostenuta. Identificare opportunità di business diverse da quelle già disponibili nei mercati non è sufficiente. Le imprese imprenditoriali sono ancor più ambiziose e audaci. I loro fondatori aspirano a fondare imprese il cui tragitto di crescita è molto promettente sin dalla partenza. Perciò, costoro fanno leva sulle opportunità convertibili in prodotti e servizi che offrono potenziali guadagni di produttività maggiori di quelli selezionati dai fondatori di piccole imprese. “Per vincere la lotteria bisogna almeno comprare un biglietto”. Ebbene, alla loro nascita le imprese imprenditoriali sono piccole imprese con un biglietto della lotteria attaccato alla culla. E il biglietto potrebbe venire dai fondi.
Anziché continuare nella più bella tradizione di allungare la mano al governo centrale per elemosinare una mancia, ben farebbe la Giunta comunale a farsi solerte promotrice di uno o più fondi di capitali di rischio per nutrire le idee imprenditoriali nel loro stadio iniziale di incubazione. Di questi fondi destinati alla semina di imprese imprenditoriali con prospettive di crescita accelerata, più del 15% all’anno mediamente nei primi cinque anni di vita, si sono già fatti promotori, come abbiamo detto, diversi comuni del Nord Europa, coinvolgendo banche, investitori istituzionali e privati cittadini. In aggiunta, l’autorità locale dovrebbe attrarre sia le società che investono negli incubatori per ospitare imprese innovative sia quelle che li gestiscono. Insomma, piuttosto che bussare al portone della spesa pubblica, il Comune dovrebbe stendere la mano al mercato, guardando anche al di là dell’orizzonte bolognese. Non mancano in Europa i capitali di rischio da investire nelle fasi primordiali di iniziative imprenditoriali dinamiche. Ciò che manca è la creatività e la progettualità del Comune di Bologna per riuscire a convogliarli verso la comunità che amministra.
“Trovare un massimo locale – diceva il Premio Nobel di economia Herbet Simon – è di solito un compito abbastanza facile: basta passeggiare verso la cima di una collina finché non c’è più spazio per salire. Trovare il massimo globale è invece il più delle volte estremamente difficile a meno che il terreno non abbia delle caratteristiche veramente speciali”. Da Vitali a Guazzaloca, persiste il dubbio che il terreno bolognese sia davvero speciale.