| Un libro nato per amore, verso una città inamabile come è Milano. Tu la ami, ma non devi dirglielo. Lei se ne accorge, ma non lo dà a vedere. Poi, un giorno allimprovviso, un miracolo accade. O se ne viene con uno dei suoi cieli rari limpidissimi fino allorizzonte. O con certe notti, quando la luna, in piazza della Scala, scende con il suo magnifico decolleté, piena e sfacciata come sa essere solo lei. È il modo che ha la città di restituire ciò che le dai. Un modo riservato, quasi scorbutico, poco appariscente. È la città bella-e-brutta. E noi viaggiamo, viaggiamo, vediamo grandi città distese, e grattacieli e palazzi e giardini e piazze sterminate e, al ritorno, arrivando dallaeroporto, Milano ci pare piccolina, quattro stanze, cucina e soggiorno. A chi ti chiede in che città vorresti vivere, non rispondi mai: a Milano. Ma quando parti e te ne vai lontano, è sempre lì che devi tornare. Per poter sognare di altre città, di altre vite e tenere in agenda quellappuntamento con il Sud chissà quando, chissà quando che ti fa vivere. Roma appartiene a una di quelle vite sempre ancora da vivere. Così vicina al nostro Sud che, arrivando, ti viene da arrossire, per quella prossimità lussureggiante. Gianni Verga (autore del libro Come avere cura della città, Spirali) lho incontrato ed è stata subito la seconda volta. Originaria. Colori, atmosfere, immagini: una città inattesa si disegna nel suo racconto. Strade, vie, piazze di una città della memoria emergente a strati dalla città un po brutta e volgare di unepoca sorda e frettolosa. Ci voleva, un libro così, quasi sussurrato in mezzo a tanti schiamazzi. Senza proclami, senza statistiche. Il racconto di qualcosa che andava facendosi; questioni, domande, riflessioni. E speranze, progetti, programmi. Con decisione. Con amore. Con fede nella riuscita. Per incominciare a narrare, a non dare per scontato nulla, a non delegare allaltro ciò che occorre fare. Ciò che noi dobbiamo fare. Un libro incomincia così, per una breccia che dissipa la superficie piana, fa intravedere lo squarcio e il rilievo, e sullo sfondo il caso, unico e particolare, di un uomo in viaggio. Un libro incomincia così, per unidea, una bizzarria seria, una scommessa. Per un gesto dautorità, per un nome che funziona, per qualcosa che aumenta e cresce. Auctor. E per una sfida e una provocazione. Autore e editore, un dispositivo non conformista. Un dispositivo narrativo e pragmatico. Lepoca. Noi non viviamo nellepoca, noi viviamo nella memoria. E, del resto, non è con i ricordi che noi possiamo scrivere e inventare e viaggiare. È uno straordinario dispositivo di scrittura e di restituzione della memoria quello in cui noi ci troviamo. La domanda non è: cosa che resta del passato, ma cosa resta dellavvenire. Perciò la nostra missione è promuovere idee, tessere reti, provocare, inventare, organizzare, tradurre, trasmettere, trasporre e restituire ciò che non è mai stato. Fornendo alleditoria le basi nuove di unaltra cultura e di unaltra tecnica. Fino alledizione. Di un libro sempre da scrivere, di un avvenimento che va facendosi, al tavolo di un convegno, di un laboratorio editoriale, di una cena. Lidea di un libro incomincia a operare prima ancora che esso si scriva, opera nel tessuto della produzione, della cura editoriale, della stampa, della distribuzione, della vendita, dellaccoglienza, del dibattito. La nostra città si costruisce sul fare e sulla politica del tempo. La vera politica. Non sul discorso politico: non sullidea della massa, dei suoi bisogni e dei suoi consumi. Non sulle abitudini, che, tra tutti gli abiti del nostro armadio, è quello più sgraziato. Una città industriale è una città che non reagisce allattuale, al vento della novità, che non teme lavvenire. Dove noi, grazie a Dio, viviamo del superfluo. È anche una città che, inventando cose nuove, non cancella la memoria. La esalta. Costruisce e restaura, inventa e mantiene, cura e ripristina: ma anche legge gli infiniti strati di ciò che resta e restituisce quel che non è mai stato. Fino a acquisire la classicità. Chi inventerà la città? Non chi se ne sta pieno delle sue certezze, pronto sempre a rispondere a domande ancora da formulare, con la sua verità in tasca, facile facile, specialista di tutto, psicologo per eccellenza, diagnostico superbo, professionista delle cose destinate a finire. A inventare la città sarà chi segue la strada stretta della parola e si trova nel ritmo della città, nella battaglia quotidiana, a ingegnarsi, a non cedere, a non dimettersi, a rassegnarsi mai, a non sottrarsi alla missione di vivere in qualità e bellezza e nella scommessa di riuscire, nella difficoltà e nel rischio: e ci si trova per forza, in quella battaglia, come capitano, come imprenditore, come amministratore, come artigiano, come ingegnere e poeta, in ciascun caso costretto dalla necessità a divenire dispositivo di forza. Città come struttura e come dimora. La città ha bisogno di ben altro racconto, di ben altra favola, di ben altra fabbrica: perché le cose, anzitutto, cominciano a esistere nella parola e non cè chi possa fare senza raccontare. E per raccontare occorre la lingua delle cose che si fanno, la lingua dellintendimento e della semplicità. Incomincia a governare, a amministrare, a avere cura della città chi rinuncia a qualsiasi idea di padronanza sulla vita, sulle cose, sulla parola. E chi coglie qualcosa di essenziale: che la comunicazione si stabilisce come scrittura della politica, come scrittura dellesperienza, come via con cui le cose sintendono. E che la politica stessa procede dallapertura, dallinterrogazione aperta, da quella domanda che non abbia già in sé la risposta. E si scrive nella lingua della diplomazia. Una politica che si fondi sulla logica binaria, sulla logica del sì o del no, sulla questione chiusa non è fatta per i cittadini, ma per sudditi sempre in difetto. Machiavelli la chiama sanza pietà. È degna di chiamarsi tale, nellaccezione più nobile, quella politica che tenga in massimo conto la parola originaria, la parola che dissipa il dialogo conformista che ha sempre opposto gli umani nella sciagurata coppia dellinterrogato e dellinterrogante, che ogni dialogo prende a modello. È degna di chiamarsi tale, nellaccezione più nobile, quella politica che tenga in massimo conto la scienza della parola la parola presa nella sua particolarità, nella sua logica, nel suo idioma, nella sua proprietà anziché la presa sulla parola. È degna di chiamarsi tale quella politica che si sottrae al litigio, alla zuffa, al rumore del pettegolezzo. Politica altra. Politica intellettuale. Politica dellaltro tempo. Se lintellettuale non è una classe né unelite né una professione, non cè potere intellettuale. Se mai, il potere è un effetto dellintellettuale come dispositivo di qualità, come stile. E limpegno non è politico, ma etico. Unaltra politica pragmatica, aritmetica, narrativa, ritmica -- senza nessun finalismo, noi auspichiamo per la nostra città. Una politica dellaltro tempo, una politica dellascolto. Anziché rispondere ai bisogni, la politica dovrebbe anzitutto imparare a questionare. E arrivare a disegnare, narrare e scrivere la carta intellettuale della città. Fino allapprodo alla qualità, dove le cose che si fanno secondo loccorrenza si concludono. Nella città dove regna lindecisione, dove si attende sempre che qualcuno risolva ogni problema, miracoli non ne succedono! Nella città senza autorità, dove laumento, la crescita siano negate, ogni sbaglio è sempre attribuito allaltro. Tutti vogliono comandare e fanno la voce grossa. E nessuno osa prendere una decisione. Il consenso non può sostituirsi allautorità, allautore. Nella città in cui ci sia lidea di unalternativa alla vita, alla riuscita, alla salute, è la morte a farla da padrona. E la fede è persa. La nostra città, quella in cui noi viviamo, è fatta a strati, non a gerarchie. La nostra città è adatta alle arti e ai mestieri, alle macchine e alle tecniche, alle lettere e alle scienze, non alla disgraziata divisione -- dissipata proprio da Leonardo, ma ripresa e enfatizzata dallidea di discriminare colletti bianchi e tute blu fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che oggi rischia di vedere estinguersi le arti più raffinate e quelle più antiche con i loro mirabili artifici, i loro idiomi, e i loro ricchissimi dizionari: ebanisti, falegnami, tessitori, tappezzieri, ricamatrici, restauratori, intagliatori, fabbri, tornitori, lattonieri, fonditori, tipografi. Quale lavoro della mano può fare a meno dellintelligenza, delle parole, del pensiero? E quale mano può dirsi non intellettuale? Forse solo la mano sulla città, quella di cui racconta in un aneddoto folgorante Sergio Mattia. Non più le mani sulla città, ma la mano della città: una mano intellettuale, una mano industriale, una mano artistica, una mano che opera, disegna, progetta, costruisce, calcola, dipinge, taglia, dispensa, piega, scrive. Una mano indulgente e tollerante. Il secondo rinascimento: lEuropa non ha più bisogno di erigere muri. Non deve più fondarsi sulle cose malate, sulla negazione delloggetto e sulla fine del tempo. Quando ho incontrato Gianni Verga, mi ha colpito in lui una certa sua conversazione interiore, e ho pensato che, se non avesse fatto lamministratore pubblico, avrebbe scritto poesie. Poi, mi sono accorta che mi ero sbagliata: lui, le poesie, non ha mai smesso di scriverle. Con la sua ingegneria: piani urbanistici, riqualificazioni di aree urbane, lavori pubblici. Ce ne fossero, a Milano, poeti così.
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