CLAUDIO LUCCHESE
Presidente del Gruppo Florim Ceramiche S.p.A.DIREZIONE E STRATEGIA PER LA NUOVA IMPRESA
Intervista di Anna Spadafora
Può dire qualcosa intorno al cervello di una grande azienda come Florim?
Noi non pensiamo di essere nel novero delle grandi. Diciamo che, nel nostro settore, siamo tra le prime dieci in Europa, anche se queste sono aziende che potranno avere uno sviluppo notevole. Il nostro settore ha vissuto in ritardo, anzi, sta ancora vivendo, il fenomeno delle concentrazioni. Probabilmente, perché fino a qualche anno fa le cose sono andate abbastanza bene, quindi, le piccole e medie aziende sono riuscite a sopravvivere bene anche in momenti non tanto floridi, e questo ha fatto sì che rimanesse un settore ancora molto polverizzato, dal punto di vista delle dimensioni. Infatti, non dobbiamo dimenticare che in questo distretto, in pochi chilometri quadrati, esistono più di 250 aziende ceramiche. Quindi, è una situazione un po’ anomala rispetto agli altri settori merceologici. Non ci consideriamo una grande azienda. Il nostro fatturato è pari a 300 milioni di euro, con 1700 addetti.
La vostra non è più l’azienda familiare gestita dall’imprenditore che trasmette le sue competenze e il suo stile. Come avete affrontato questa trasformazione anche nella crescita dell’azienda? Oggi, si può parlare di un lavoro di cervello “diffuso”, non più piramidale, nella vostra azienda?
Io credo che non esistano aziende in cui non c’è il lavoro di cervello, anche se è evidente che le aziende di settori più avanzati dal punto di vista tecnologico hanno bisogno di lavoratori con più alte caratteristiche d’ingegno o di cervello. Il nostro non è tra i settori più altamente tecnologici, perché il grosso apporto industriale si concentra in forti investimenti di capitali fatti da assets come terreni, fabbricati e macchinari, che, tutto sommato, sono alla portata di tutti. Infatti, i nostri maggiori concorrenti, quelli che oggi stanno emergendo, i cinesi, i turchi, gli spagnoli, che sono una realtà già acquisita da vari anni, possono fabbricare gli stessi nostri prodotti. Quindi, il lavoro del cervello esiste ed è diffuso in tutte le nostre aree, però se per cervello intendiamo la creatività, la capacità di fare prodotti che sul mercato vengono sempre maggiormente apprezzati, magari anche prodotti nuovi, nella nostra azienda il cuore dell’innovazione sta nel laboratorio, dove da sempre, per nostra cultura aziendale, abbiamo concentrato molte risorse sia economiche sia umane. E credo che questo sia il cuore della nostra azienda che, essendo industriale, è fatta di prodotto. E quindi è il prodotto al centro della nostra impresa.
L’alternativa è uscire dal mercato. Già le aziende sane e strutturate, con grande qualità delle persone, fanno fatica in Europa a sopravvivere, parlo di imprese industriali, manufatturiere, dove i fattori che compongono il costo (manodopera, materie prime, utenze, trasporti) sono prevalenti. In Europa queste componenti del costo stanno avendo ripercussioni enormi, perché devono confrontarsi con un mondo industriale che sta nascendo, come la Cina, dove questi fattori hanno costi enormemente inferiori. Ecco perché dico che in Europa il mondo industriale è sempre più messo in una situazione di rischio. Noi ci viviamo dentro e cerchiamo la crescita attraverso l’innovazione del prodotto. Anche se l’innovazione, che qualche anno fa dava un vantaggio competitivo di un anno o due, oggi dura pochissimo perché l’emulazione, la globalizzazione, l’internazionalizzazione ha assunto un’importanza enorme e basta un giorno per vedere i propri concorrenti copiare e mettere sul mercato il proprio prodotto innovativo.
Il contributo del vostro settore di ceramiche artistiche sta nell’eco del patrimonio rinascimentale…
Quando abbiamo inventato il cromtck (un prodotto molto innovativo, tra l’altro utilizzato nella pavimentazione delle Biblioteche Vaticane) all’inizio degli anni novanta eravamo i primi. Oggi lo stesso, uguale, viene prodotto da almeno ottanta industrie ceramiche nel mondo.
Il destino degli autori è quello di essere copiati.
Ovviamente, ma si fa sempre più fatica a rimanere innovatori, perché i costi sono notevoli, il costo della ricerca e gli investimenti che ci stanno dietro, sia di uomini sia di macchinari, è sempre maggiore e il beneficio è sempre minore. Alla fine, purtroppo, nel prossimo futuro, andremo incontro a un mondo dove il copiatore ha più successo dell’innovatore, perché investe meno, spende meno, fa meno fatica e tutti gli sforzi che l’innovatore mette nell’innovazione il copiatore li mette sul mercato, sulla distribuzione, sull’aggressività, sulle quantità prodotte e alla fine può accadere che rimanga lui il vincente. Noi per vocazione siamo un’azienda innovatrice, ma ci chiediamo fino a che punto valga la pena. Questo, naturalmente, vuole essere una provocazione.
L’unica possibilità credo che stia nel fatto di riuscire ad avere sul mercato, sulla distribuzione, un peso sempre più importante, al fine di essere sempre meno assoggettati a una distribuzione esterna, indipendente e con un potere sempre più forte rispetto all’azienda produttrice. Lei diceva che siamo un’impresa grande, io dico invece che siamo un’impresa piccola perché per entrare nella distribuzione ci vogliono dei volumi e delle dimensioni molto più elevate di quelle che noi abbiamo, perché comportano investimenti notevoli e una serie di cose che si possono fare solo attraverso grandi numeri.