CARLO MARCHETTI
Cifrematico, segretario dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna, responsabile a Bologna della Cooperativa Sociale “Sanitas atque Salus”QUANDO LO SCIENZIATO DIVIENE IMPRENDITORE
I primi due decenni del secolo scorso furono tra i più ricchi di acquisizioni per la scienza, in Occidente. Ciascun giorno si segnalava per imprese, scoperte, invenzioni. Planck definì la teoria dei quanti, Bohr le proprietà spettroscopiche dell’atomo, Hertz l’andamento ondulatorio della propagazione elettromagnetica, Einstein la teoria sulla relatività, Poincaré diede i contributi più importanti alla teoria matematica delle funzioni e Marconi istituì le trasmissioni a onde corte. Wittgenstein diede alle stampe il Tractatus Logico-Philosophicus, Saussure le lezioni del Corso di linguistica generale, Freud alcuni dei suoi libri più importanti: L’interpretazione dei sogni, i Tre saggi sulla teoria sessuale, Introduzione al narcisismo, Introduzione alla psicanalisi. Le importantissime acquisizioni della medicina fecero sì che essa passasse dall’approccio al caso fondato essenzialmente sul quadro patologico e sulla nosografia a criteri propri a quella che oggi chiamiamo medicina scientifica. Tra questi, l’applicazione sempre più frequente delle scoperte della scienza fisica all’indagine diagnostica e alla pratica terapeutica. Molti medici aprirono gabinetti di ricerca. Freud stesso, inizialmente, fondò il suo studio professionale con questo assetto. L’istanza della ricerca interessò molti medici, inscrivendosi in percorsi individuali con forte affermazione dell’aspetto del sogno come elemento essenziale alla pratica professionale e all’efficacia dell’intervento clinico, dunque alla salute di ciascuno. Sogno che, come indica la cifrematica, riprendendone la definizione di Freud di via regia dell’inconscio, è ciò senza cui non si effettua la verità. Costituisce la struttura del racconto, insieme con la dimenticanza, la struttura del fare, del contingente.
Al proposito, narro una storia. Nel 1910, come leggiamo in un articolo di cronaca di un giornale italiano, nelle Marche, un giovanissimo medico aveva aperto il primo gabinetto radiologico in una regione meridionale d’Europa, in stretto contatto con lo scopritore di quei raggi X che avrebbero cambiato la storia della diagnostica medica, il tedesco Röntgen. Questo medico, che si chiamava Bruno Marchetti, non voleva fare il radiologo, professione che, d’altronde, non esisteva ancora. Desiderava avvalersi di uno strumento scientifico che gli consentisse una visione dell’interno del corpo per svolgere nel modo che riteneva migliore la professione cui ambiva e che avrebbe fatto per tutta la vita, quella di chirurgo. Ritenendo che la combinazione tra tecnica radiologica e tecnica chirurgica avrebbe comportato una svolta decisiva nella pratica clinica, anticipandone gli sviluppi e non limitandosi a enunciarli, ma facendo, trovò i termini di un’efficacia che gli avrebbe guadagnato l’invito in varie università, come Napoli, Bologna e Modena. Poteva sembrare il conferimento di un primato assoluto alla visione, negli stessi anni in cui più a Nord, a Vienna, qualcun altro, Freud, scommetteva sull’ascolto e sulla clinica dell’udibile, cui si sente più vicino chi scrive. Tuttavia, egli intuì che, per dare più forza alla sua idea e per permetterne lo sviluppo, occorreva la costituzione di una struttura più ampia, con il carattere d’impresa, e fondò una clinica, tuttora esistente e operante, i cui punti di forza continuano a essere il gabinetto radiologico, ora ambulatorio, e la pratica chirurgica. Per la medicina si trattò di perseguire, da allora in avanti, oltre alla riaffermazione dei principi dell’etica professionale, l’osservanza di uno statuto di scientificità secondo canoni comprendenti anche i criteri protocollari epistemologici. E medico era colui che vi si atteneva nell’esercizio della professione.
Nello stesso 1910, un anno particolarmente ricco di eventi, sorse a tal fine, in Italia, l’ordine professionale dei medici, non tanto per fini di preminente tutela sociale, ma per conferire centralità e rilievo a un modello, anche culturale, di riferimento. Per alcuni gli eventi di quegli anni avrebbero segnato la fine della cosiddetta medicina umanistica, assimilando tuttavia la nozione di “humanitas” a quella di condizione umana come limite.
L’avventura della medicina è continuata e si è sviluppata, anche in termini di efficacia, in modo spesso clamoroso in questi anni, pur mancando alcuni aspetti fondamentali. Lo statuto di scientificità della medicina non può prescindere dall’attenersi alla parola nella sua logica particolare, non ponendosi dunque fuori, o al posto della stessa, non calandosi nella dicotomia rimedio/veleno. Per affermare l’“humanitas” occorre che nella pratica medica si affermi la parola, che il medico esista come statuto anche nel dispositivo della pratica, dispositivo intellettuale, oltre che in quello di ricerca, e che ripristini, nella pratica, la virtù dell’“humilitas”, condizione essenziale per l’ascolto.
Perché ciò avvenga occorre intervenire sulla formazione in modo non ordinario, affiancando alla professionalità una formazione in direzione della qualità, tenendo conto, sempre del diritto dell’Altro.