Numero 6 - IL VIAGGIO INTELLETTUALE
Le radici dell'Europa e la città planetaria
Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
VITTORIO MATHIEU
Docente di Filosofia Teoretica e Morale alle Università di Trieste e Torino

LA SCIENZA E IL ROMANZO DELL'EUROPA

Ringrazio per queste presentazioni, che si staccano dalla consuetudine in cui chi presenta il libro non l’ha letto, quindi non contesta nulla all’autore e il dibattito risulta assente. Sergio Dalla Val, invece, non soltanto ha letto il libro, ma ha ripreso una quantità di temi diversi che io stesso non sarei stato in grado di riassumere così in breve. E Carlo Monaco mi ha posto un quesito, quello dell’alternativa tra Parmenide e Eraclito. Io credo che Eraclito e Parmenide dicano la stessa cosa: “Tutto è uno”. Solo, la dicono in due modi radicalmente diversi: Eraclito con il linguaggio della Sibilla, che non dice ma allude. Parmenide con l’enunciato ormai tipico: “è, non è”. Apparentemente, la scienza come tale è strettamente enunciativa: “è, non è”; ma al tempo stesso è durata, riconoscimento del cambiamento, concretezza. Allora, si deve dire che la scienza è eraclitea? Evidentemente no. Ci sono due modi di affrontare la realtà, due dimensioni da cui guardare la stessa realtà: una è la dimensione che possiamo chiamare enunciativa e l’altra è la dimensione che possiamo chiamare rivelativa o ermeneutica.
Qual è il pericolo della prima dimensione, quella parmenidea? È che, se ci limitiamo a dire “è, non è”, passiamo da Parmenide a Gorgia, che dice: “Nulla è, se anche è non potrei saperlo e se anche sapessi non potrei enunciarlo”. È, dunque, l’esito nichilistico di Parmenide, esplicitamente richiamato da Emanuele Severino, per il quale la scienza contemporanea, proprio perché tende a sviluppare la dimensione tecnologico-utilitaristico-applicativa, inevitabilmente sfocia nel Nulla. Ma, come dice Carlo Monaco, questo vale non per la vera scienza, bensì per lo scientismo, anche se negli enunciati degli scienziati sulla scienza lo scientismo riaffiora continuamente. Questo è il pericolo vero che incombe sull’Europa, già evidente nell’ultima fase della sua storia, quella che possiamo chiamare romantica e che in qualche modo non finisce mai, perché anche le reazioni al Romanticismo continuano a essere romantiche, come il Romanticismo stesso aveva previsto.
Al riguardo farò soltanto la strana storia, a ritroso, della parola “romanzo”, che ha tanti sinonimi, come odissea o avventura. Secondo Federico Schlegel, il romanzo è un libro romantico, e questo sembra un paradosso. Ma notiamo che la parola romantico al tempo di Schlegel era già vecchia di almeno un secolo, si parlava di atmosfera romantica già nel Seicento inglese. Schlegel estrae questa banalità paradossale in quanto la parola romantico era stata applicata anzitutto a coloro che, in senso peggiorativo, chiamiamo protoromantici, proprio perché affascinati da Roma e soprattutto dalla Chiesa di Roma. È, quindi, una parola già nota nel secolo precedente, ma viene usata contro il romantico e a un certo punto i romantici la rivendicano come una loro caratterizzazione, perché si valgono del paradosso: perpetuano la fine accentuandola paradossalmente, al punto che molti romantici pensano di dover scrivere in stato di disfacimento mentale, prodotto anche da stupefacenti. Questo è deliberato. Come mai la parola romantico assume un senso che perdura ancora oggi? Perché perdura il pericolo cui accennavo prima, ossia che, a forza di progredire, rischiamo di fermarci. Come mai questo? Proprio perché il romanzo è un “romanzo d’avventura”, e quando dico “romanzo d’avventura” risalgo, ben al di là del Seicento, al romanzo cavalleresco: Le roman d’Alexandre, che è stato scritto in versi detti alessandrini e parla di Alessandro Magno.
Il romanzo prende il nome da Roma e questa, a sua volta, pesca nell’ellenismo, nel periodo immediatamente successivo allo sfacelo dell’impero d’Alessandro. L’impero romano si modella sui regni che seguiranno ad Alessandro, come l’Egitto e la Siria, dove l’imperatore viene divinizzato e c’è una forte burocrazia. Lo stato moderno risente enormemente di questa vita, perché nasce dallo sfascio del Sacro Romano Impero.
Il disfacimento dell’impero di Alessandro sta nel fatto che Alessandria, la città che prende il nome da lui, non diviene quel centro ideale che per secoli è stata Roma. Anche quando è divenuta un villaggio di pastori, Roma ha continuato ad essere il centro del Sacro Romano Impero. E Federico Barbarossa, che ha cercato di restaurare l’impero per l’ennesima volta, può considerarsi un romantico ante litteram, perché sognava un’unità ideale con un centro a Roma. Invece la dispersione ha dissolto il suo sogno. Questo spiega come il romanticismo prenda il nome dal romanzo come romanzo d’avventura, il romanzo prenda il nome da Roma e Roma prenda questo contenuto dall’ellenismo. Lo stesso genere letterario del romanzo nasce in età ellenistica e poi prende il nome di romanzo da Roma.
La natura della scienza corre questo stesso pericolo, quando si subordina alle sue applicazioni, a un linguaggio che non è più il linguaggio analogico della comunicazione che si fa presente nella sua concretezza, ma è il linguaggio della trasmissione di ordini della cibernetica, che non richiede né la coscienza né la sensibilità né l’approfondimento. Questo è un pericolo, non è il destino inevitabile della scienza, nemmeno la sua vocazione, perché, se la scienza è avventura, è precisamente l’avventura di quell’Ulisse che ideava congegni, macchine, anch’egli tipicamente applicativo. Machina in greco significa “espediente”, per uccidere il ciclope o per conquistare Troia, con quella specie di cavallo cavo che diventa un sottomarino. Ulisse inventa espedienti, ma al tempo stesso riesce a non perdere il centro, cioè a non dimenticarsi del tutto di Itaca, che è il centro ideale a cui poi corrisponde Roma. Da Calipso (la dea che nasconde, calyptei vuol dire “nasconde”) Ulisse rimane ben nove anni, non un giorno. Di notte dimentica e di giorno ricorda con nostalgia e vorrebbe ritornare. Alla fine Atena, figura mitologica della mente veramente scientifica, non soltanto applicativa, ma al tempo stesso creativa, rigenera in qualche modo Ulisse.
La perdita del centro è il rischio dell’avventura. E il romanticismo vuole rendersi cosciente di questo pericolo, ma al tempo stesso lo sfida, lo arrischia. Rischia, cioè, precisamente di perdere il centro. E allora, noi dobbiamo imparare la lezione del romanticismo, ma non essere romantici. In qualche modo, dovremmo essere classici. Il tentativo di essere classici è precisamente il rischio romantico. I romantici vorrebbero essere classici. L’Odissea vorrebbe essere l’Iliade, perché questa era già un classico rispetto all’altra. Allora capita che l’Omero dell’Odissea prenda in giro l’Omero dell’Iliade, lo prenda non troppo sul serio e con ironia cerchi di rimanere classico. Il romanticismo fa lo stesso. E credo che dovremmo farlo anche noi o, perlomeno, dovremmo cercare di conservare una certa ironia. Ironia vuol dire mantenere una certa allusività. Allusività vuol dire “giocare rinviando a”, ossia rinviando a qualcosa che non si può presentare enunciativamente, come fa Parmenide, ma solo giocando. Attraverso il gioco si rinvia al senso. Se cerco di presentare il senso direttamente, perdo la centralità. Questa è la mia speranza perché si salvi l’Europa, non necessariamente in Europa, perché l’importante è che si salvi lo spirito d’avventura che è lo spirito europeo. Noi spesso rifuggiamo dal rischio, vorremmo l’assicurazione e la riassicurazione e così via all’infinito. Ma in questo infinito rischiamo di perderci con il cattivo infinito.
Quanto alle annotazioni di Dalla Val sul viaggio infinito, l’Odissea termina con una parte — che per alcuni è aggiunta, ma ha molto senso — in cui, secondo la profezia di Tiresia, Ulisse, prima di morire, deve intraprendere un viaggio per terra fino a quando non trovi una terra ignara del mare. Qui, un tizio, incontrandolo, scambia un remo che Ulisse ha sulle spalle per la pala usata per la pula del grano, a tal punto è ignaro del mare. Questo vuol dire che il mare è la tentazione dell’infinito. Oltrepassare le colonne d’Ercole significa andare verso l’infinito. Il mare come tentazione dell’infinito è ciò che, pur nel merito incontestabile dell’Ulisse dantesco, lo perde. Lo perde quando arriva quasi al paradiso terrestre, che non può essere raggiunto su questa terra. Potremmo dire che il desiderio d’infinito su questa terra è il desiderio dell’Eden che in realtà non è a nostra disposizione. Si può, con la fede, aspettarlo nell’aldilà.
D’altra parte è tradizionale che il viaggio abbia delle regole. Si supponeva, addirittura, che certi pesci, attaccandosi alla chiglia, potessero impedire il viaggio. Se non ci fosse l’ostacolo, non ci sarebbe neanche il mondo. Come nota Kant, se non ci fosse l’aria che fa da ostacolo, la colomba non potrebbe volare. Si tratta di riuscire a valorizzare l’ostacolo, anziché semplicemente contrapporvisi e quindi perdere il movimento.