ALBERTO SERMONETARabbino capo della Comunità ebraica di Bologna
LA BELLEZZA DELLA POESIA NELLA BIBBIA
È molto difficile parlare del rapporto che c’è tra l’uomo in generale, l’ebreo in particolare e Dio. Sin dai primissimi capitoli della Torah la parte fondamentale dell’Antico Testamento si narra dell’istituzione del rapporto tra l’uomo e Dio. Cercherò di trovare una spiegazione dal punto di vista rabbinico, poiché il contenuto del libro di Bloch mi tocca particolarmente da vicino, in quanto studioso del testo della Torah, della Bibbia, dei testi rabbinici e di ciò che riguarda lo scibile ebraico.
Nella Torah troviamo raccontato, sin dalla vita dei primi uomini, il rapporto di amore e timore o terrore nei confronti di Dio da parte degli esseri umani. Analizzando il titolo stesso del libro di Bloch, Dio e la poesia, mi vengono in mente quei brani che si trovano all’interno del testo biblico che sono parte integrante della Bibbia e che l’arricchiscono ancora di più del rapporto già marcato tra Dio e l’oggetto del suo creato, l’essere umano. I brani poetici per eccellenza si distinguono nel testo dalla metrica, dalla composizione linguistica rispetto a quelli in prosa.
Il primo esempio di poesia è il racconto che la Torah ci propone, riguardo la Creazione, nel primo capitolo del Genesi. La Creazione, nella sua lettura più poetica, ci fa notare quanto è grande lo sforzo che Dio fa per raggiungere quello scopo che egli stesso si era prefisso prima ancora d’iniziare l’opera creativa. Nel testo di Bloch, troviamo a un certo punto una domanda a proposito del verbo usato per la creazione. Sono le parole con cui comincia il testo biblico: “In principio, Dio ha creato il cielo e la terra”. Fanno molto bene gli esegeti a cercare l’origine più profonda sia delle parole sia dei verbi. Qual è il verbo della creazione? “Creò”: Dio creò il cielo e la terra. Nessuno di noi è in grado di capire se “creò” è la traduzione precisa di quanto dice la Bibbia in ebraico. Infatti, non è la traduzione precisa. I miei maestri mi hanno insegnato che tradurre è tradire. Il testo viene tradito nel momento in cui viene tradotto. Barah significa creare da una materia non esistente, cioè dal nulla. Questa è una caratteristica esclusivamente divina. Poi, andando avanti, troviamo altri verbi che ci fanno pensare alla creazione più umana, quella che noi conosciamo con il termine “creazione”: iozzer, che significa creare da una materia che non ha forma e, quindi, plasmare una figura. L’ultimo verbo della creazione che si trova nel secondo verso del secondo capitolo è asah, che significa fare, portare a termine qualcosa, completare. Questi sono i tre verbi della creazione. Se noi traduciamo tutti e tre con il termine “creare” commettiamo un errore. Dio ha una caratteristica superiore rispetto all’essere umano, cioè quella di creare qualcosa da ciò che non esiste. Questa è poesia, perché noi vediamo come viene scritta e descritta umanamente un’opera che è umanamente impossibile portare a termine. Continuare una certa opera è dato all’uomo come precetto fondamentale per proseguire la creazione ma, nonostante l’inumanità dell’opera, il testo dà un senso umano a questo compito. L’uomo e la donna si sposano per creare una famiglia, costituiscono una casa in funzione dei bisogni di coloro che verranno dopo il matrimonio, cioè i figli. Dio si prefigge di creare il mondo in funzione dell’essere umano. C’è una teoria cabalistica ebraica in cui si suppone che Dio, dopo aver completato la creazione, avesse bisogno di far posto all’uomo per vivere sulla terra e, quindi, si è ritratto da quella che è la sua onnipotenza. Dio non ha una stasi, può essere immanente e trascendente, può essere presente e può essere presente non essendo presente. Sono tante le caratteristiche, ma non è il caso di soffermarsi su di esse, in questa occasione.
Un’altra grande testimonianza della presenza divina nella poesia la troviamo in quella che è considerata la “poesia” per eccellenza. Nell’ebraico biblico, per tradurre il termine poesia, si usa il termine scir o scirah, molto bello anche come assonanza: ricorda un canto, più che una poesia. In fondo, non dimentichiamo che le poesie sono considerate canti per la loro bellezza lirica. La scirah per eccellenza è quella che il popolo ebraico intonò dopo aver attraversato il mar Rosso e che si trova raccontata nel capitolo XV dell’Esodo. Dopo aver definitivamente abbandonato la schiavitù, una schiavitù che non permetteva di dimostrare le proprie ragioni, di mettere in pratica le proprie tradizioni, dopo aver abbandonato tutto ciò, Mosè e i figli d’Israele intonarono questa cantica. Gli esegeti sostengono che la predisposizione alla cantica è qualcosa che viene naturalmente nell’uomo, in una condizione però diversa da quella che egli vive di consueto. Sostengono che le parole dette nel testo biblico, e che iniziano con il verso precedente all’inizio del capitolo XV, si concludono poi con la cantica in questione: “E il popolo ebbe timore del Signore ed ebbe fiducia nel Signore e in Mosè”. La fiducia in Dio e in colui che è stato scelto per essere il suo condottiero provoca al popolo un’ispirazione particolare, divina.
Un’altra scirah la troviamo nel Libro dei Giudici, intonata dal popolo quando sconfigge finalmente, dopo anni di guerre, i Filistei; è la stessa cantica pronunciata da re David nel Libro di Samuele, nel capitolo XXII, quando sconfigge definitivamente i suoi nemici e riesce a scappare dalle mani di Saul che voleva ucciderlo. Vediamo così che nella cantica all’interno del testo biblico c’è sempre un rapporto con Dio, ma è un rapporto indiretto. Dio non è la causa della cantica, è forse qualcosa che sta all’esterno. Non è Dio, ma l’uomo che combatte la guerra e la vince, può essere una guerra fisica ma anche morale, psicologica, e la vince grazie alla fiducia in se stesso e in Dio. O viceversa: avendo fiducia in Dio ritrova la fiducia in se stesso. C’è un bellissimo episodio, che non è di poesia, della guerra contro Amaleck, che ci fa riflettere. Nel capitolo XVII dell’Esodo, il popolo ebraico viene attaccato da questo esercito, è in una condizione particolare, è stanco, ha appena lasciato l’Egitto. Questo esercito attacca il popolo nelle retrovie, dove ci sono donne, bambini e persone malate. Il popolo comincia a perdere la speranza di vincere questo esercito, di vincere Amaleck, il nemico per eccellenza del popolo ebraico. Poi troviamo una cosa strana, che ha quasi dell’inverosimile: Dio comanda a Mosè di salire in cima a una collina per sorreggergli le braccia tenendole con le sue mani. Quando il popolo, alzando gli occhi, vedeva Mosè con le braccia in alto, sconfiggeva Amaleck; viceversa, quando le braccia di Mosè cadevano per la stanchezza, il popolo perdeva. Non è che le braccia di Mosè avessero una forza particolare. Che cosa significa aver le braccia in alto? Le braccia in alto sono il simbolo della presenza: “Io ci sono, sono presente”. E, quindi, gli uomini ritrovano la fiducia in se stessi attraverso la fiducia in Dio, la fiducia in qualcosa che, anche se non si vede, si percepisce. La presenza di Dio all’interno della vita dell’essere umano fa sì che egli possa acquisire la fiducia in se stesso. Questa fiducia ritrovata viene poi espressa nel migliore dei mezzi che l’uomo possa adottare, quello dello studio, della cultura e, quindi, della poesia. La poesia è il mezzo più bello che si possa comprendere per uno studio, una discussione e tutto ciò che può essere cultura e tradizione.
L’espressione divina all’interno della poesia non è altro che un riconoscimento di colui che imprime la fiducia in noi stessi. Se manca la fiducia in noi stessi non possiamo avere nessun tipo di contatto con la società che ci circonda.
In questo libro ci sarebbero molte altre cose su cui ragionare, cose che possono andare, apparentemente, in contrasto con la tradizione ebraica, ma c’è altrettanto della tradizione biblica, rabbinica, cabalistica all’interno di questa espressione poetica del ritrovare il simbolismo della divinità nella poesia stessa.