PATRIZIA SOMMAZZI
Primario della casa di cura Frate Sole di Figline ValdarnoUN NUOVO STILE PER L'ASSISTENZA
Intervista di Carlo Marchetti
La casa di cura Frate Sole oggi è all’avanguardia in Italia per certi tipi d’intervento ortopedico ma, soprattutto, per la cura nella riabilitazione, veramente unica. Com’è nato il vostro istituto?
Come casa di cura è stata inaugurata in maggio del 1994, ma già dal 1985 esisteva la RSA (Residenza Sanitaria Assistita per anziani) Frate Sole, gestita dallo stesso consiglio di amministrazione, cioè dai coniugi Ferri, che erano e sono gli ideatori e i gestori di tutto il complesso Frate Sole.
Essi erano allora imprenditori provenienti dall’ambiente della moda. L’idea d’investire in una casa di riposo nacque sicuramente un po’ per gioco, indubbiamente per una grande intuizione riguardo al problema degli anziani. Realizzarono quindi un ambiente privato, con particolare attenzione al comfort ambientale (personale di assistenza, arredamento, giardino, cibo e altro). Il loro maggior merito comunque sta nel fatto di aver capito molto presto l’importanza sia di quella che oggi si chiama animazione, sia del mantenimento del benessere fisico (medici e fisioterapisti erano già presenti fin dall’inizio).
Fu un successo. Dopo pochi anni l’amministrazione pubblica ha cominciato a convenzionare la RSA (cinquanta degli attuali settanta posti letto sono convenzionati con l’ASL).
Com’è avvenuta la trasformazione della residenza per anziani in struttura sanitaria?
Dal momento che la riabilitazione aveva dato buoni frutti nell’ambito della terza età, si pensò di creare una struttura sanitaria geriatrico-neurologica. Si giustifica in questo modo l’iniziale scelta delle figure mediche chiamate dieci anni fa per organizzare la nascente casa di cura. Infatti, il dottor Alberto Peri ed io (i primi due medici convocati e tuttora presenti) provenivamo da ambienti geriatrici. Per noi il concetto di riabilitazione aveva già l’ampiezza del “recupero funzionale globale”, inteso come, a partire da qualsiasi tipo di trauma, rientro del soggetto a pieno nel suo ambiente e nella sua vita.
Iniziato il lavoro, ci rendemmo conto che la società e i singoli non investono il proprio denaro in lunghi periodi riabilitativi rivolti a persone ormai fuori dal ciclo produttivo. In breve, la riabilitazione neurologica privata era un’utopia. Volendo rimanere in settore riabilitativo, dovevamo indirizzarci al campo ortopedico. Sia i medici sia i fisioterapisti, quasi tutti con origini culturali simili alle mie, lavorarono per adeguarsi alla nuova esigenza.
A metà degli anni novanta, almeno all’interno della nostra realtà regionale, non c’era una grossa cultura riabilitativa da parte dei chirurghi ortopedici. Fu perciò inevitabile entrare in contatto con l’equipe francese che stava inserendosi nel tessuto fiorentino. In loro è forte il concetto dell’inscindibilità del binomio intervento-riabilitazione (tanto che l’uno non viene se l’altra non è organizzata) e anche l’articolazione da riabilitare, in quanto sostituita con mezzi metallici, è considerata all’interno di un corpo nella cui armonia deve essere inserita.
È nata quindi un’intesa che, credo, abbia portato crescita in entrambi i team e abbia dato presto i suoi frutti. Nel ‘96 abbiamo allestito la prima sala operatoria e due anni dopo la seconda; aperte anche a ortopedici italiani, con i quali è stato concordato quel processo riabilitativo che ormai era divenuto il nostro target.
Chirurgicamente parlando, affrontiamo per lo più grandi articolazioni (anca, ginocchio, spalla), dalle patologie più semplici alla sostituzione protesica. I primi utenti riabilitandi sono i nostri stessi operati.
Nel corso degli anni, in che modo sono cambiati gli utenti e gli approcci terapeutici?
L’ortopedia, negli ultimi anni, sta caratterizzandosi come branca ad alta complessità tecnologica, rivolta a un’utenza che presenta sensibile crescita della vita media e delle aspettative di qualità di vita. Nasce, quindi, il bisogno di metodiche clinico-chirurgiche orientate più nell’ottica preventivo-riparatrice che sostitutiva.
In questo senso, i nostri progetti più importanti riguardano ginocchio e spalla, e vanno dalle metodiche di conservazione di menischi e cartilagine in generale, alla loro sostituzione con miniprotesi e altro tessuto funzionalmente valido. La chirurgia dovrà essere a basso impatto (artroscopica o mini-invasiva), correlata alla valutazione costo-beneficio a medio termine.
Lo spirito che anima, comunque, qualunque sia il settore, chirurgico o riabilitativo, è sempre il ripristino della funzione. E la funzione è il risultato di un’interazione equilibrata fra integrità fisica, competenze ed emozioni. È per questo che, al di là di protocolli e tecniche riabilitative, cerchiamo sempre di conoscere l’uomo per entrare in quel vissuto che condiziona assolutamente relazione e risultato. Abbiamo, a mio parere, un punto di forza: il gruppo, che accetta anche la mancata soluzione dei problemi.
Sono in contatto quotidianamente con veri professionisti. Oggigiorno, poi, abbiamo anche la formazione continua, ma spesso con questo termine si va a designare la sempre maggior professionalità con cui applichiamo le tecniche che conosciamo. Il problema è proprio questo, l’humanitas. Possiamo fare tante belle raccomandazioni: rispettare l’altro, essere empatici, saper ascoltare, accogliere l’altro dentro di noi, ecc. Io penso che sarebbe sufficiente una cosa sola: pensare che chi abbiamo davanti siamo noi.