Numero 19 - Come ascoltare gli edifici
Leonardo Celestra
architetto, titolare della Edit Celestra, Bologna
PER UNA LETTURA DELLA MEMORIA
intervista di Anna Spadafora
Prendendo spunto dal libro di Massimo Mola, Come ascoltare gli edifici, che cosa può dirci della sua esperienza di ristrutturazione? Ha incontrato casi in cui alcuni interventi erano improponibili rispetto ad altri, non tanto per i vincoli e le normative che li impedivano, quanto per le esigenze strutturali dell’edificio stesso?
Capita spesso d’incontrare committenti non preparati all’approccio del restauro o della ristrutturazione. Spesso, chi intende restaurare, o addirittura ristrutturare, un bene architettonico, si carica di aspettative personali che vanno ben oltre le possibilità statiche dell’edificio e il buon senso comune.
Il progettista, in questi frangenti, si trasforma in un intermediario culturale, volto alla ricerca dell’equilibrio fra le predisposizioni intrinseche dell’edificio e le aspettative culturali ed economiche, che spingono il committente a intraprendere un restauro o ristrutturazione che sia. Sinceramente, mi è capitato più spesso di trovarmi di fronte a delle incompatibilità culturali tra quello che è l’edificio e quello che doveva essere il progetto di ristrutturazione piuttosto che a delle impossibilità strutturali, questo grazie anche al fatto che la tecnica del consolidamento strutturale, in questi anni, ha fatto passi da gigante, con l’entrata nel commercio di nuove resine, di fibre di carbonio, di innesti in acciaio, ecc.
Per cui, rispetto al passato, lo spazio di manovra del progettista si è enormemente allargato.
Nel dibattito attuale sulla conservazione del patrimonio artistico, specialmente nel nostro paese, esistono almeno due schieramenti opposti: uno rivolto al recupero e al mantenimento del bene storico artistico, l’altro più propenso a fare incontrare l’innovazione architettonica ed estetica con la tradizione a cui un bene appartiene. Lei, che ha curato progetti che investono spazi pubblici di città anche in altri paesi, cosa può dirci a questo proposito?
Penso che entrambi gli schieramenti meritino le dovute attenzioni.
Il segreto, come nella maggior parte delle cose, è capire qual è il giusto rapporto di equilibrio fra i due pensieri.
Lei mi parla di conservare e recuperare.
Conservare un bene architettonico significa immergersi nel periodo storico in cui è stato costruito l’edificio, individuare gli usi e i costumi dell’epoca, studiare i materiali e le tecniche costruttive impiegate, tenendo sempre presente la funzione per cui è stato costruito. Recuperare un bene architettonico significa, invece, restituire una funzione a un edificio, che prima l’aveva persa a causa della sua obsolescenza.
Quindi, è chiaro che, parlando di conservare un bene architettonico attraverso il recupero, parliamo sempre di un rapporto di equilibrio fra il rispetto storico e la funzione sociale che esso dovrà svolgere.
Questo concetto lo si può estendere anche all’urbanistica: bisogna evitare che i nostri centri storici diventino dei “grandi musei delle cere”, pronti a essere ammirati ma non a essere vissuti, ma allo stesso tempo non bisogna aggredire il nostro passato in nome del progresso, in quanto ciò porterebbe a un indebolimento della nostra identità e personalità in termini di società.
In questi giorni abbiamo appena terminato il progetto del Perform Trading Center, un grande edificio di 30.000 metri quadrati, nel centro storico di Sofia. Sofia è una città dove la maggior parte delle emergenze storiche sono state distrutte per far posto a omologanti edifici in linea del periodo comunista, quindi, nel progettare il nostro edificio, abbiamo avuto difficoltà di contestualizzazione culturale, in quanto l’area sulla quale insisterà il nostro edificio è priva di riferimenti storici significativi ai quali fare riferimento per costruire un’architettura che potesse risultare un unicum con il contesto circostante.
Per l’architetto, progettare con un riferimento storico culturale forte è un grande aiuto, in quanto il progetto è suggerito dall’ambiente circostante (colori, materiali e forme), naturalmente, senza perdere il proprio tempo, rileggendo il passato in chiave moderna.
Come emerge dal dibattito pubblicato nel libro di Mola, restaurare, sempre più, vuol dire restituire in qualità, anziché in pristino. Quindi, più che rifare l’edificio esattamente come pensiamo che fosse in passato, che cosa occorre dare all’edificio perché ci sia qualità nella sua struttura e nella sua architettura?
Studiando la storia dell’architettura, si è visto che non in tutti i periodi storici struttura e architettura (ornamento) hanno percorso la stessa strada. Nel periodo gotico, la struttura veniva evidenziata e restituita come ornamento architettonico: si pensi alle nervature delle volte ogivali raccordate da longilinei pilastri polilobati, o agli archi rampanti che reggono la spinta di cortine murarie altissime. Nel Barocco, e, fino agli estremi, nel Rococò, la struttura veniva occultata per dare spazio all’ornamento architettonico. Solo con i padri del Razionalismo architettonico del novecento, la struttura ha ripreso dignità ed è ritornato a vigere il principio della “onestà strutturale”: nulla deve essere occultato, anzi, la struttura deve risaltare dalla lettura dei prospetti.
Alla sua domanda bisogna rispondere che occorre restituire dignità ad entrambi i subsistemi architettonici: la struttura non deve essere mortificata da carichi eccessivi o estranei al suo naturale flusso delle forze, e l’ornamento architettonico, ovvero la comunicazione in termini emozionali e artistici, che l’edificio vuole trasmettere, non deve essere volgarmente eluso, o, peggio, mistificato. Penso invece che bisogna impegnarsi a fare in modo che sia possibile una lettura del passato attraverso le varie trasformazioni che l’edificio ha subito nel tempo.
Mi è capitato qualche volta che persone anziane mi mostrassero, con nostalgia e orgoglio, le loro fotografie da giovani, e di riuscire a riconoscerli dai loro occhi.
Lo stesso vale per gli edifici: un buon restauro o ristrutturazione è quell’intervento che ci permette di riconoscere “gli occhi” dell’edificio, ovvero lo spirito per cui tanti anni fa è stato costruito.