La Città del Secondo Rinascimento

Numero 23 - L'era del brainworking

Franco Mosconi
docente di Economia industriale all'Università di Parma e al Collegio Europeo di Parma

ALL'INCROCIO TRA MANIFATTURA E SERVIZI

Vorrei incominciare con una celebre citazione dalla Teoria dello sviluppo economico di Joseph A. Schumpeter, che, teorizzando la “distruzione creatrice”, scriveva: “Di regola [...] le nuove combinazioni sono incorporate in nuove imprese che generalmente non nascono dalle vecchie, ma cominciano a produrre accanto a esse”. E così concludeva: “Non è il padrone delle diligenze a introdurre le ferrovie”. A partire da questo brano, possiamo chiederci quali sono le diligenze e le ferrovie del nostro tempo, in quali ambiti dell’economia si verifica questa “distruzione creatrice” descritta quasi un secolo fa dal grande economista austriaco. Posto in altri termini, possiamo chiederci quali settori produttivi sono in ascesa e quali in declino. Economie come quelle delle nostre aree – Carpi, l’Emilia Romagna, il Nord-est –, in seguito all’avanzata di Cina e India, sono condannate a un più o meno lento declino o possono mantenere la loro prosperità? L’affacciarsi sul mercato di nuovi protagonisti e la grande rivoluzione delle nuove tecnologie digitali cambieranno la geografia mondiale dello sviluppo? Ha ragione la più potente banca d’affari del mondo, la Goldman Sachs, quando conia l’immagine dei “Paesi BRIC” (Brasile, Russia, India e Cina) e li vede fare parte del G7 di domani?

Anche sull’onda del successo delle nuove “fabbriche del mondo” (la Cina, in primis), si sono venute diffondendo, nel nostro Occidente sviluppato, reazioni troppo spesso emotive, che danno quasi per spacciato il ruolo dell’industria manifatturiera. Come ho cercato di argomentare nel mio libro dedicato a Le nuove politiche industriali nell’Europa allargata (MUP), questo è un errore fondamentale, perché nella produzione di cose belle e/o tecnologicamente sofisticate risiede il cuore del progresso di un paese. La maggior parte delle applicazioni tecnico-scientifiche passa per la manifattura. Naturalmente, nell’ambito dell’industria, è cambiato molto il modo di produrre, nel senso che l’interdipendenza tra manifattura e servizi è andata aumentando. Non è più possibile descrivere un sistema economico evoluto col bianco o col nero, da una parte la manifattura e dall’altra i servizi, lasciando all’agricoltura un ruolo più o meno residuale, che nel nostro paese tanto residuale non è. Se, nel 1970, negli Stati Uniti, il venticinque per cento della forza lavoro era occupata nell’industria, settore che oggi ricopre meno del dieci per cento, possiamo dire che la manifattura in America oggi non ci sia più? Possiamo più realisticamente dire che è cambiato il modo di funzionare della manifattura. Infatti, rispetto ad alcuni decenni fa, si è fatto via via crescente – all’interno della singola impresa — il numero di persone che lavora in funzioni a forte contenuto immateriale, che si occupa cioè di ricerca e sviluppo, di design, di progettazione, di marketing, di servizi post-vendita e di ricerca.

Ecco che, allora, i fili tra manifattura e servizi, soprattutto quelli a elevata intensità di capitale umano, sono molto sottili, ma anche molto robusti. E, dunque, se questa è una descrizione di ciò che sta avvenendo nella realtà, le nostre economie, compresa quella emiliano-romagnola, devono spostarsi verso settori a più elevato contenuto tecnologico e, al tempo stesso, vedere crescere un terziario di supporto alle imprese molto evoluto e di qualità: dalla finanza per lo sviluppo al marketing, dalla ricerca alla formazione del capitale umano, dalle attività fieristiche e congressuali alla logistica. Questo grande spostamento richiesto a economie sì forti ma ancora troppo legate all’industria manifatturiera tradizionale – come quella emiliano-romagnola, ma lo stesso potremmo ripetere per quelle lombarda, piemontese e veneta –, non è uno spostamento facile, e qui c’è il grande problema dell’economia italiana nel suo insieme.

“BusinessWeek” pubblica tutti gli anni la graduatoria delle più grandi imprese del mondo (1200 Global Leaders). Negli Stati Uniti, la General Electric, la più grande impresa del mondo, che tutti gli anni è in cima a questa graduatoria, fa prodotti sofisticatissimi: motori per aerei, turbine, con alto contenuto di scienza e di ricerca. Sempre ai primi posti, fra le imprese americane manifatturiere, troviamo la Procter and Gamble e la Johnson & Johnson, dove il contenuto immateriale, il marketing, il brand, le campagne di vendita e la ricerca di nuovi prodotti sono importantissimi. Nel Regno Unito, la prima grande impresa è la Glaxo Smith Kline, che fa prodotti farmaceutici, avvalendosi, nella ricerca, di scienziati che si dedicano alle scoperte in grado di migliorare la nostra vita. In Svizzera, troviamo Novartis e Roche, in Francia, Sanofi Aventis, in Giappone, Toyota Motor e, in Germania, Siemens. Il problema è che per trovare la prima grande impresa manifatturiera italiana che fa prodotti ad alto contenuto immateriale, dalla ricerca al post-vendita, bisogna scendere oltre la cinquecentesima posizione, con il gruppo Luxottica.

Allora, qui c’è la grande sfida dell’Italia, che certamente non ha un sistema industriale fermo all’anno zero, però evidenzia un grande problema nel confronto con i paesi del capitalismo continentale o anglosassone: è venuta indebolendosi la spina dorsale della grande impresa. E, nel momento in cui c’era bisogno di assecondare la rivoluzione tecnologica imperniata sulle ICT e sulle scienze della vita, qualche treno lo abbiamo perso! Anche se c’è ancora qualche speranza, perché sul territorio italiano c’è un’intelligenza diffusa, fatta dalle famose piccole e medie imprese, in cui si gioca parte del futuro della nostra economia.

Veneto, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana sono cinque fra le diciotto regioni europee – sulle 250 di cui è costituita l’UE – in cui, secondo i dati Eurostat (2005), più di un terzo della ricchezza proviene ancora dall’industria manifatturiera. Sono regioni in cui operano quelle che Mediobanca e Unioncamere definiscono le “medie imprese industriali”. In Emilia Romagna ce ne sono 570, fatturano dai 13 ai 290 milioni all’anno, hanno dai 50 ai 499 addetti e non dipendono da holding o sub-holding (hanno cioè un assetto proprietario autonomo). Oggi, dopo averle osservate per anni nelle loro performance, è ragionevole affermare che è soprattutto da questo vivaio di quasi quattromila medie imprese che dipende una parte non piccola del destino economico del nostro Paese. Esse, in un periodo non facile per l’economia italiana (l’ultima indagine del novembre 2006 copre il periodo 1996-2003) hanno presentato indici di sviluppo (fatturato, valore aggiunto, esportazioni, occupazione, margine operativo) di segno altamente positivo, consentendo così all’economia italiana di reggere e poi di riscattarsi (come si comincia già a intravedere). Non è un caso, non è per un accidente della storia che la maggior parte di queste imprese operi nei settori tipici del made in Italy: la meccanica strumentale, il sistema moda (tessile-abbigliamento, calzature), l’agro-alimentare, l’arredo casa. Non venendo dalla luna, queste imprese, da dove traggono la loro forza e la loro vitalità? La netta impressione è che si tratti di una famiglia di imprese che comincia ad avere le dimensioni adatte per avvalersi di capitale umano di qualità, nonché la capacità di allacciare proficui rapporti con le imprese del terziario (soprattutto quelle di supporto, come ho detto sopra, alla produzione). In fin dei conti, quando si parla di competitività, l’indice che bisogna davvero considerare è il ritmo d’incremento della produttività. La produttività del lavoro è, a sua volta, figlia della quantità di tecnologia che viene introdotta nelle imprese e che i lavoratori hanno a disposizione, così come della loro capacità d’apprendimento (learning by doing). Poi c’è il modo in cui l’impresa (combinazione di capitale e lavoro) è organizzata, e che riflette i suoi effetti sulla produttività totale dei fattori. L’eccessiva frammentazione delle imprese (il famoso “nanismo” tipico del sistema industriale italiano) esercita effetti negativi sul progresso tecnologico, la formazione del capitale umano e gli investimenti: in una parola, sul ritmo di crescita della produttività. Le medie imprese, per tutte queste ragioni, possono rappresentare una parte rilevante del futuro della nostra economia.

In conclusione, al contrario dei diamanti resi celebri dalla pubblicità, la prosperità non è data per sempre. Questo vale per un paese e, a maggiore ragione, per un distretto industriale celebre nel mondo, come quello che oggi ci ospita, Carpi. Credo anche che il declino nel Nord-est e dell’Emilia Romagna non sia inesorabile e che distretti come quello di Carpi dimostrino che, sia nelle manifatture tradizionali (quali il tessile-abbigliamento e la meccanica) sia in quelle nuove (come l’informatica e le ICT), si possono consolidare nuove attività produttive che si collocano all’incrocio tra la manifattura e i servizi. Qui la variabile-chiave diviene l’innovazione di prodotto, e l’affermazione di un marchio – un brand — di qualità. Insomma, una cosa è certa: vuoi nelle industrie tradizionali vuoi nei nuovi settori – dove credo è un imperativo categorico spostarsi sempre più – cresce il contenuto immateriale della produzione. Cresce quindi l’intelligenza e il capitale intellettuale di cui c’è bisogno.