La Città del Secondo Rinascimento

Numero 25 - Testimonianza. Materiale di civiltà

Luciano Passoni
ingegnere, amministratore di SIR, Modena

L'IDEOLOGIA DEL BENESSERE

Essere imprenditore oggi è molto più arduo che nei decenni passati: di certo è un’affermazione inflazionata, spesso utilizzata in convegni e conferenze, ma sostanzialmente vera. Il motivo va ricercato nella globalizzazione sempre più spinta, che ha innescato un meccanismo di competizione e concorrenza spietato, soprattutto se si considera che i paesi da cui trae origine possiedono regole, vincoli e costi ben differenti da quelli occidentali. L’Italia si trova poi in una posizione ancora più delicata, poiché costituisce una nazione praticamente priva di materie prime. Soffriamo inoltre le conseguenze di un ritardo cronico ed estremamente preoccupante nella realizzazione di tutte le infrastrutture necessarie a un’efficace movimento di merci e persone. Infrastrutture che sono di vitale importanza per qualunque paese che voglia mantenere alta la bandiera della propria industria, che necessita di tutti i mezzi atti alla produzione e al movimento dei prodotti a costi contenuti. Paradossalmente, pare che opere e miglioramenti dei distretti produttivi siano auspicati e richiesti a gran voce dagli imprenditori solo per il loro interesse e non ci si rende conto che invece sono la premessa basilare per rilanciare l’economia e per creare il benessere di tutti. Spinti da logiche di pensiero ormai fuori dal tempo, molti vedono impresa e imprenditore come enti e persone da combattere, una cattiva pianta che germoglia e cresce lentamente all’interno della società, degna di assurgere a livello di cronaca solo quando il dibattito verte sullo sfruttamento del lavoro e sull’evasione fiscale. Ma non siamo più nell’ottocento, per nostra fortuna, per cui è quantomeno sconcertante incontrare persone che ancora si ostinano a parlare di lotta di classe, generando ingiustamente diffidenza e tensione fra lavoratori e imprese. Credo invece che sia giunto il tempo di osservare e giudicare la nostra società in modo equo, ristabilendo le giuste regole, rilanciando i valori e ricreando quel clima di reciproca fiducia tra imprenditore e lavoratore, necessario per un progredire sano e corretto. Le due realtà rappresentano infatti forze complementari: le aziende non possono fare a meno di uomini e maestranze, mentre il benessere economico non può prescindere da impresa e industria.

Ma non bastano regole e valori: occorre una nuova presa di coscienza di tutti i protagonisti del mondo del lavoro. Occorre riscoprire quello spirito e quell’entusiasmo che avevano accompagnato lo straordinario sviluppo economico degli anni sessanta, quando tutti erano spinti dalla voglia di fare, dall’amore per il proprio lavoro, ma soprattutto dall’orgoglio di essere parte di un marchio, qualunque fosse la funzione e l’importanza del singolo individuo. Contribuire alla crescita di un’impresa, renderla grande agli occhi del mondo era lo stimolo di allora, il grande assente dell’odierno mondo del lavoro. Spesso oggi sentiamo parlare dell’importanza del fattore umano, del lavoro organizzato in team efficienti e affiatati, spinti verso un obiettivo comune; sono cambiate le parole, ma si tratta ancora di quel vecchio e nobile concetto che deve riprendere piede: l’importanza di una squadra e l’orgoglio di farne parte. Probabilmente un benessere eccessivo e quasi sfrenato ha introdotto nella nostra società innumerevoli elementi di distrazione, affievolendo in tutti noi quel mordente e quell’entusiasmo che altro non sono se non la scintilla e il combustibile di ogni prospera economia, componenti fondamentali del motore della vivacità, della creatività, dell’innovazione. Manca la volontà di mettersi in gioco, pur rischiando ciò che appare, ma non è mai, certo e consolidato. Ma un paese, e soprattutto questo paese, non potrà mai basarsi esclusivamente sul terziario, sia esso rappresentato dai servizi, dal turismo o dalle attività di ricreazione. È ovvio e naturale che una società moderna ed evoluta tenda ad accrescere il proprio benessere e ambisca a nuovi e più alti desideri. Ma queste attività prenderanno piede solo se una base consistente di consumatori avrà la disponibilità di investire ricchezza in attività che non rappresentano bisogni primari. Questa ricchezza non può che derivare da un tessuto produttivo stabile, forte, tecnologico, innovativo, creativo e, in ultima istanza, estremamente aggressivo e risoluto. In assenza di tale tessuto, il meccanismo non si potrà autosostenere e lentamente ma inesorabilmente la nostra società scivolerà verso il degrado e il peggioramento delle condizioni economiche e sociali. In un paese in cui le materie prime sono inesistenti e l’energia e le infrastrutture scarseggiano, possiamo contare esclusivamente sulla nostra capacità intellettiva, sull’ingegno e la fantasia tecnica che hanno originato il made in Italy, sulla determinazione, la perseveranza e la voglia di fare. Ma proprio quello che dovrebbe essere il nostro punto di forza sta divenendo la nostra debolezza. Il motivo è presto detto: a partire dagli anni settanta, diverse forze hanno incominciato a inculcare nella gente l’idea che si potesse vivere e progredire lavorando sempre meno, mantenendo però inalterato o addirittura migliorando il benessere e il tenore di vita. Un’equazione assolutamente insostenibile e, in un certo qual modo, socialmente pericolosa. Si era giunti persino a proporre un orario di lavoro di trenta ore settimanali, o a sostenere le baby pensioni. Questo tarlo ha generato e alimentato all’interno della nostra società la convinzione che il lavoro non sia un elemento nobilitante della vita, in grado di elevare le persone, ma una punizione che nostro malgrado subiamo. Questa disaffezione dilagante ha creato una generazione di imprenditori e lavoratori grigia e appiattita, che opera senza entusiasmo, passione e creatività. Persone che, qualunque sia il loro ruolo, aspettano con ansia e sofferenza la fine della giornata o l’agognato traguardo della pensione, per potere dedicarsi anima e corpo ai propri diversivi. Il benessere senza fatica è un bel sogno che abbiamo cullato per qualche decennio, risvegliandoci nell’amarezza di una società economicamente e psicologicamente impoverita. Oggi più che mai serve ritrovare quei valori che hanno costituito la base del miracolo economico degli anni sessanta, è giunto il tempo di dare al lavoro il giusto posto che gli compete nella vita dei singoli e della società. Solo così potremo ottenere il benessere necessario alla soddisfazione di diversivi e distrazioni, che sono pura conseguenza del nostro lavoro e non possono quindi, piaccia o no, non solo surclassarlo e sostituirlo, ma nemmeno lontanamente eguagliarlo. Dobbiamo infatti ricordare che la competizione globale ci impegna a confrontarci con imprese e lavoratori che stanno uscendo ora dalla povertà più nera. Ricordano tanto l’Italia degli anni cinquanta, che non possedeva nulla ma traboccava di voglia di fare: questi popoli impregnano il loro lavoro con l’entusiasmo, la passione, la determinazione che era nei nostri cuori in quegli anni. Proprio per questo la competizione ci appare così impari: perché lo stimolo che li anima è sostanzialmente diverso dal nostro, perché da un lato il lavoro è la sorgente di denaro necessaria per soddisfare i bisogni primari, dall’altro è la fonte che alimenta i nostri diversivi. L’imperativo dominante, la parola chiave, la forza trainante di tutto rimane quindi una sola: la voglia di fare. La quale richiama alla mente sinonimi importanti: impegno, dedizione, ma anche passione e felicità di creare qualcosa, sia esso grande o piccolo, sia esso parte o intero.

Eppure, al giorno d’oggi, nella nostra realtà italiana, non appena i livelli di impegno superano la soglia della normalità, si parla immediatamente di persone, imprenditori, lavoratori stressati. Ma stressati da cosa? Dalla possibilità di migliorarsi e di avere un futuro migliore? Questo termine, che andrebbe tolto dal dizionario della lingua italiana, è sulla bocca di tutti; ogni giorno e in ogni luogo la frase che rappresenta il tormentone dei nostri ambienti lavorativi viene lanciata come un grido di aiuto nell’estremo momento: “Che stress!”. E subito corriamo dallo psicologo senza nemmeno aver cercato di affrontare e risolvere il problema, spronando il proprio io a superarsi e ad evitare di sprofondare in inutili negativismi, in cui il bicchiere appare sempre mezzo vuoto. L’unica causa di tutto questo non può che essere il benessere in cui viviamo, che ha tolto a ognuno di noi la scorza e i muscoli del combattente, generando ventri molli che si chiudono in una grigia rinuncia, definendosi malati di stress, piuttosto che affrontare la sfida e provare, almeno provare, a vincere. So che il mio modo di giudicare questo aspetto della moderna società va in contrasto con teorie e ipotesi di esperti e scienziati, che quotidianamente leggiamo sui giornali, ascoltiamo in televisione o in innumerevoli convegni. E infatti io non sono uno psicologo, ma un uomo che ha vissuto il boom italiano e che osserva come eravamo allora e come siamo oggi. Per questo ritengo che il continuo ed esasperante parlare di tutte queste malattie da stress abbia pian piano convinto chi si rappresenta più debole e fragile a rinunciare alla battaglia proclamandosi perdente, divenendo egli stesso malato.

Anche i mass media hanno contribuito al dilagare di questa incultura, grazie allo spettacolo circense di giornali e telegiornali in cui si evidenziano esclusivamente le peggiori negatività di famiglie, istituzioni, politica e società: tutto questo da un lato non ha fatto che istigare chi si rappresenta più fragile all’emulazione, dall’altro ha contribuito a creare un clima di sconforto e disincentivazione anche nelle persone più positive. È giunto il momento di evidenziare soprattutto le iniziative di persone capaci di creare qualcosa grazie al loro entusiasmo e alla loro capacità, affinché possano trasmettere agli altri stimoli e determinazione e divenenire veicoli trainanti della nostra economia, incoraggiando l’intraprendere, il fare, l’inventare, l’innovare. A questo va aggiunto una nuova e più consapevole attribuzione del corretto valore a mestieri e professioni, non essendo più accettabile che le attività che creano vera ricchezza e occupazione nel paese siano poco o mal retribuite, soprattutto in relazione al rischio e all’impegno profusi. Le distorsioni del mondo moderno hanno indotto la nostra società a esaltare e pagare profumatamente lavori e occupazioni prive di consistenza e reale valore aggiunto, consentendo di conseguenza l’arricchimento di personaggi che spesso rappresentano esclusivamente un esempio negativo per la collettività. In cinquant’anni di attività e impegno continuo, io non sono arricchito, come non sono arricchiti tanti altri imprenditori che hanno dedicato la loro vita alle aziende e hanno contribuito a creare occupazione e benessere per tante famiglie. Diviene quindi fondamentale una trasformazione del nostro approccio alla vita e al lavoro: trasformazione che deve prendere le mosse dalle istituzioni, dalla scuola, dalla famiglia, entità a cui va riconosciuta una nuova e più grande importanza e in cui dovranno essere ristabilite le regole fondamentali dell’educazione e del rispetto. Come potranno infatti gli adolescenti viziati sin dalla prima infanzia – abituati a ottenere qualunque cosa senza alcun minimo sacrificio, poco rispettosi delle regole elementari della famiglia e della società, abituati a divertirsi, ricompensati dai genitori con viaggi e premi per ogni pur misera sufficienza strappata a scuola – divenire gli imprenditori e i lavoratori del nostro prossimo futuro, preposti a migliorare la nostra società? Non voglio apparire moralista, ma la mia esperienza mi ha insegnato che l’impegno necessario per migliorarsi, per raggiungere un obiettivo, o anche solo per acquistare una cosa desiderata, rafforza enormemente il carattere e crea grande gratificazione. Ogni piccola conquista viene in questo modo apprezzata e metabolizzata, rammentandoci che benessere e ricchezza non rappresentano assolutamente condizioni scontate. Si sente quindi la necessità di un ripristino dei corretti valori, che non sono solo propri del mondo del lavoro, ma della società in generale. Ho auspicato più volte l’avvento di un nuovo rinascimento, industriale ma anche intellettuale: diamoci tutti da fare perché questo accada. Ma i tempi sono stretti e non si può prescindere dall’analisi dell’ideologia del benessere: per non essere costretti ad arretrare verso standard di vita più bassi, dovremo sapere accettare che il benessere porta sì tanti diritti, ma anche il dovere morale di saperlo accrescere e alimentare, per il futuro nostro e dei nostri figli.