Numero 25 - Testimonianza. Materiale di civiltà
Anna Spadafora
cifrematico, brainworker, direttore dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna
LA RESTITUZIONE IN QUALITÀ
Se consideriamo che oggi in Italia, come nota Roberto Cecchi nel suo libro I beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà (Spirali), oltre il sessanta per cento dell’attività edilizia è finalizzato al restauro e al recupero del patrimonio architettonico esistente, non ci sorprende che il dibattito intorno ai beni culturali investa non soltanto i musei e le pinacoteche, ma anche un settore importante dell’impresa come quello edile, che deve seguire norme e regole complesse, che richiedono l’instaurazione di dispositivi con i vari attori di ciascun singolo progetto. Quando poi un progetto di recupero coinvolge intere aree urbane, i fattori che contribuiscono alla sua riuscita esigono anche il dibattito con i cittadini, che non possono essere più semplici spettatori di un processo di trasformazione indispensabile e inarrestabile.
Quindi, non solo gli architetti, gli assessori e gli urbanisti, ma anche i cittadini sono sempre più chiamati a interrogarsi intorno alla testimonianza materiale di civiltà che non può più essere delegata al bene culturale in sé, perché coinvolge, come ci suggerisce l’Autore, il contesto in cui esso è inserito. In questo senso, l’antico e il nuovo si trovano in uno scambio costante. Ma in che modo questo scambio può avvenire? Quali sono i criteri del restauro moderno e quali gli strumenti legislativi di cui occorre tenere conto?
Attraverso la sua esperienza come soprintendente in varie città, in cui è stato impegnato nei processi di restauro di alcune fra le più importanti opere d’arte di tutti i tempi (fra cui l’ultimo restauro della Cena di Leonardo da Vinci), Roberto Cecchi ci accompagna in un viaggio nell’arte e nell’architettura che dà la parola alle opere e ci consente di ascoltare i dettagli della storia e della memoria degli uomini che hanno lavorato alla loro produzione e di quanti le hanno restaurate, sempre tenendo conto del contesto, dei materiali e degli strumenti utilizzati.
Così, per esempio, durante i lavori di restauro nella chiesa di Villa a Castiglione Olona di Varese, scopre che si tratta di una “piccola isola di Toscana in Lombardia”, perché per la cupola autoportante è stata utilizzata la stessa tecnica, la cosiddetta “spina-pesce” senza l’uso di centine, cioè di strutture provvisionali in legno che il Brunelleschi adottò per la cupola di Santa Maria del Fiore, tecnica da lui inventata e diffusa solo nel Quattrocento e solo nei dintorni di Firenze. Allora, la chiesa di Castiglione ci parla di uomini che avevano avuto frequentazione di ser Filippo, il quale, a sua volta, aveva reinterpretato una tradizione antichissima risalente all’architettura romana o addirittura alla tradizione costruttiva dell’area mesopotamica. L’Autore, portando a sostegno un documento del filosofo Gregorio di Nissa, vissuto nel IV secolo in Anatolia, nota che in quell’area il legname da costruzione era carente, quindi, “non si potevano fare capriate e, se si voleva coprire un vano, bisognava ingegnarsi a risolverlo con quello di cui si disponeva, e cioè pietre, mattoni e malta”.
Tutto questo ci dice che, come scrive l’Autore, “se guardiamo il nostro patrimonio culturale anche attraverso i suoi elementi costitutivi, vale a dire i documenti della materialità, è facile farsi un’idea diversa rispetto a quella che ci propone la storiografia corrente, che tende a una periodizzazione esasperata, come se si potesse far coincidere ogni girar di secolo con un cambiamento di sensibilità e di creatività”.
E, proprio per restituire il patrimonio artistico e culturale alla civiltà, è nostro compito la valorizzazione della memoria, che non può avvenire all’insegna del conflitto e delle dispute tra Ministero e Comuni, tra architetti e ingegneri, tra l’antico e il moderno, ma attraverso l’instaurazione di dispositivi in direzione della restituzione in qualità. Non a caso, il libro di Roberto Cecchi riporta in appendice la relazione della Commissione Franceschini, indagine sullo stato dei Beni culturali in Italia, pubblicata nel 1967, per certi versi, purtroppo, ancora attuale, e la Carta del Restauro, del 1972, dove si enunciano alcuni principi essenziali, fra cui il dovere di ogni stato membro di fare un inventario dei propri beni culturali, l’esigenza di una politica integrata fra stato, proprietari e utenti e quella d’incoraggiare le iniziative private.
Il valore di ciascuna città, il valore dell’Italia è il valore dei beni culturali come testimonianza materiale di civiltà. E il compito per ciascuno di noi è il processo di valorizzazione dei beni culturali, valorizzazione stessa della memoria come arte e invenzione. Il restauro è esso stesso arte e invenzione, anziché opera che debba sottostare a una gerarchia di valori che la classificherebbe come secondaria.
Emerge dal libro di Roberto Cecchi un approccio del tutto nuovo ai beni culturali, un approccio in cui importano le cose che si fanno, importa ciò che si aggiunge senza nulla togliere e in cui valorizzazione non vuol dire, come nota nella conclusione, “intervento” come perdita di contesto, ma tutto ciò che contribuisce alla scrittura della memoria.
Emerge anche un altro modo del restauro, senza più l’idea di fine del tempo, quindi, senza più l’idea che debbano essere cancellati i segni del tempo per ripristinare il bene così com’era prima. Se il restauro come sembra testimoniare Roberto Cecchi è restituzione in qualità, allora importa il processo di valorizzazione della memoria, non la cancellazione di presunti segni del negativo, importano i dispositivi del fare che s’instaurano lungo la produzione artistica, da cui lo stesso restauro non è esente.
Il palazzo storico, anziché essere un oggetto da contemplare, è un documento che partecipa alla scrittura della storia e della memoria della civiltà. Roberto Cecchi chiama fabbrica il palazzo. La fabbrica è un dispositivo del fare, dove l’arte della costruzione si è tramandata nei secoli.
L’arte e le sedi museali possono contribuire, anche attraverso gli scambi con altri paesi, all’internazionalismo, essenziale proprio perché il provincialismo non giova alla città come civitas: una città si costituisce come civiltà solo in quanto internazionale e intersettoriale, città in viaggio, viaggio di cui i beni culturali sono testimonianza materiale.