Numero 20 - La scienza, l'arte, la poesia
Fernando Arrabal
drammaturgo, poeta, inventore, con Beckett e Ionesco, del Teatro dell'Assurdo
L'ARTE DI COMBINARE I RICORDI
Ho molta fortuna perché nel mio conversare qua e là, che parli in francese o in inglese o in spagnolo, sono sempre tradotto (anzi, migliorano quel che dico), come se ci fosse lo Spirito santo.
Miguel de Cervantes Saavedra morì precisamente a tredici metri e mezzo non un millimetro di più né uno di meno dal luogo in cui dichiarai il mio amore alla mia Dulcinea. Avevo, allora, diciannove anni e Cervantes è morto dove doveva morire. Shakespeare ha detto: “La rosa si chiama rosa e non può chiamarsi in altro modo”. Egli dice anche che le cose accadono quando e dove devono accadere. Ed è così vero questo che Cervantes e Shakespeare sono morti lo stesso giorno, lo stesso mese e lo stesso anno. Accade che Dio vede tutto, ode tutto, però confonde tutto. E Cervantes e Shakespeare erano come me, mi plagiarono prima del tempo. Erano innamorati della confusione.
Vi farò una rivelazione. Cervantes, Pirandello e Wittgenstein, con Stalin, hanno fatto un’opera drammatica che mi sto accingendo a concludere. Pirandello ha scritto I giganti della montagna, ma non l’ha terminato. Io lo concluderò.
Io che, alla mia età, ho ricevuto i maggiori premi perché ai vecchi si danno le malattie (rischio di essere premiato con il Nobel e sarebbe una disgrazia!) , quando mi diedero il premio Wittgenstein, ho promesso che avrei scritto un’opera teatrale che riassumesse quella conversazione incredibile che si è svolta, per una settimana intera, al Cremlino, tra Stalin e Wittgenstein, il più grande filosofo del secolo.
Ma la cosa più importante è che Cervantes parla di se stesso con una modestia megalomane. E dice: “Io sono il più grande dei poeti, nessuno può assomigliarmi”. Non mi sembra strano ciò che dice Cervantes, poco prima di morire nella via Cervantes: “Io sono il più grande poiché sono l’unico scrittore in grado di scrivere novelle italiane”.
Prima di parlarvi di come morì Cervantes nella via Cervantes, vi racconterò come fu riscattato dai trinitari quando era schiavo a Algeri e quanto costò la sua liberazione.
Cervantes era un archibugiere, un soldato semplice, e nella battaglia di Lepanto si è comportato come la maggior parte degli intellettuali spagnoli, italiani e francesi. Le sue biografie ufficiali raccontano che, quando incominciò la battaglia di Lepanto, da lui considerata l’evento migliore per il presente e per l’avvenire, quest’uomo esemplare ed eroico ebbe un “ritortiglione” di ventre e rimase sottocoperta, sulla nave Marchesa, piuttosto che andare a combattere.
In precedenza, era stato condannato al taglio della mano dal re di Spagna. Dopo la condanna, scappò dal suo paese e arrivò a Roma, dove incontrò un cardinale che si chiamava Acquaviva. Ne divenne il cameriere. La relazione tra Acquaviva e il suo cameriere è stata talmente torrida che ci sono troppi uomini in sala perché io possa raccontarla. Se fossimo tra signore, avrei potuto raccontarla.
Il posto di cameriere comporta tre missioni: vigilare di notte il cardinale, perché nessuno lo ammazzi, cambiare gli orinali e rifare il letto. La relazione tra loro fu di grande amore. Il biografo ci nasconde che il cardinale Acquaviva aveva un anno in più di Cervantes. Dopo due anni di amore, raccontati meravigliosamente dalla professoressa Rosa Rossi dell’Università La Sapienza di Roma, ci fu una rottura. Una rottura omosessuale, violenta. E Cervantes disse al cardinale Acquaviva: “Me ne vado! Me ne vado nell’esercito, anzi, peggio che nell’esercito, me ne vado in marina e non nella marina vaticana, nemmeno in quella spagnola, che ha fatto la santa Alleanza contro i turchi, me ne vado nella peggiore di tutte, nella Serenissima, nella marina veneziana. E lì, perché tu muoia di gelosia, mi lascerò possedere giorno e notte”.
E Cervantes fu alla battaglia. E la battaglia terminò male per lui, poiché, quando volle tornare in Spagna, un pirata lo prese e lo portò ad Algeri. E di nuovo nacque l’amore. Il bey di Algeri, che era in realtà un albanese rinnegato, s’innamorò di lui, perché Cervantes era come me, piccolo, brutto, però incantava tutti. Il bey di Algeri chiese ai trinitari il riscatto per un povero soldato, per un povero archibugiere, e pretese cinquecento scudi d’oro. Un’enormità! Era il prezzo dell’amore. E come dicono Shakespeare e la meccanica quantistica, di nuovo le cose accadono come devono accadere.
In Spagna si domandano: perché il premio Nobel? E lo danno a gente come Arrabal? Creiamo un premio noi, più bello del Nobel. Creiamo il premio Cervantes. È incredibile. E quando hanno stabilito l’importo per il premio Cervantes, il Nobel spagnolo, quanto denaro credete che diano ogni anno? Cinquecento scudi d’oro, come quando era in carcere Cervantes.
Né la Spagna, né il governo di alcun paese volle dare un soldo per Cervantes. Però, Cervantes aveva una mamma. Che mamma! Che donna! Leonor de Cortinas. Quando atterrate all’aeroporto di Barajas, fate caso al nome: dovrebbe chiamarsi Leonor de Cortinas, perché sotto la pista dove atterrano gli aerei sono sepolti i resti della stanza in cui nacque. Questa donna era geniale, come tutte le donne di Cervantes. Alcune avventuriere, altre pornografe, ma tutte così intelligenti le donne di Cervantes. Quando Leonor de Cortinas viene a sapere che occorrono cinquecento scudi d’oro, l’equivalente del premio Cervantes, per riscattare suo figlio, decide di girare la Spagna per trovare i soldi. Come si traveste, donna Leonor de Cortinas? Come la maggior parte di voi signore! Da vedova, poiché il marito era impresentabile. E raggiunge la somma di cinquecento scudi d’oro.
Ma la cosa va più lontano. Cervantes aveva una nonna. Che nonna! Questa nonna aveva un marito che si chiamava Juan ed era un rammollito. Come era usanza degli italiani e degli spagnoli in quell’epoca, Juan aveva un’amante, una barragana. L’unione con una barragana era tollerata e benedetta dalla Chiesa cattolica, apostolica e romana.
Quando seppe che suo marito la ingannava, donna Leonor de Torreblanca ebbe un’idea luminosa, degna dei Cervantes. Andò al mercato e cercò lo schiavo più leggiadro. Era uno schiavo bellissimo di quattordici anni e aveva un colore nero meraviglioso, molto raro. Lei ne fece il suo barragano. Nel testamento dispose che divenisse un uomo libero, ma lo liberò solamente alla sua morte. Questa donna era così geniale che, nel suo testamento, scritto quando Miguel de Cervantes Saavedra aveva otto anni, lasciò uno scudo d’oro ai frati trinitari che riscattavano gli spagnoli presi prigionieri dagli arabi. Fece questo in quanto tutte le notti, la famiglia Cervantes e Miguel in particolare, erano visitati da una donna. Voi conoscete questa donna poiché avete letto la prefazione di un’opera teatrale di Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore. Scrive Pirandello: “Tutte le notti viene a trovarmi una donna. È meravigliosa, è vestita di nero e legge i miei racconti. Questa donna è la fantasia”.
Cervantes e anch’io, tutte le notti, siamo visitati da una donna, una donna meravigliosa, che sa molto dell’amore, di quello più puro e anche di quello più pornografico. Io imparo molto con lei. Ha molta erudizione, sa tutto della filosofia, sa di astrofisica e conosce l’amore dell’amore. Questa donna, però, non è vestita di nero, ma di tutti i colori. Non è la fantasia, è qualcosa di migliore, è la grande lezione di Cervantes. Non è fantasia, è immaginazione. E l’immaginazione possiamo definirla l’arte di combinare i ricordi.
Ma ora vi dirò come terminò la vita di Cervantes. In una strada, in cui morì anche Lope de Vega, che era suo nemico. La strada, però, si chiama Cervantes.
Cervantes muore il 23 aprile 1616, precisamente trecento anni prima che nasca a Zurigo il primo movimento della modernità, il movimento dadaista. Abbiamo sempre pensato che questo movimento fosse stato creato da Tristàn Tzara. Ma un professore della Sorbona ha osservato che a Zurigo, nel 1916, c’è una strada che si chiama come deve chiamarsi: via dello Specchio. E al numero quattro, di fronte al numero tre, c’è Tristàn Tzara, che gioca a scacchi con la persona che vive al numero tre.
Questa persona, dimostra il professore, ha scritto il primo manifesto dadaista, e non Tristàn Tzara, come abbiamo sempre creduto. Il vicino della casa di fronte aveva un nome e questo nome è molto divertente e interessante.
Quando l’americano Bobby Fisher distrugge quello che veniva chiamato l’impero del male, l’impero sovietico, nella finale a Reykjavik, in Islanda, nel 1973, dando scacco matto a Spassky, le autorità sovietiche si riuniscono e dicono: “Non è possibile, l’uomo più intelligente del mondo deve essere sovietico, come è stato dal 1945”.
Il Comitato centrale del partito comunista dice che questo sovietico deve essere il Lenin della scacchiera. Allora, viene trovato un ragazzino che gioca a scacchi, si chiama Karpov e diventerà campione del mondo. La persona che gioca contro Tzara, nel 1916, a Zurigo, è un russo che ha un nome falso perché la polizia non lo catturi. Il nome è Karpov, ma la persona è Lenin. Ed è dimostrato che il primo manifesto della modernità lo ha scritto Lenin. Il manifesto dadaista.
Passano gli anni e torniamo nel 1616. E con questo concludo. È molto importante. Nel 1616, nel momento di morire, il monco di Lepanto, l’uomo che ha perso un braccio nella battaglia di Lepanto, scrive: “Se queste Novelle esemplari non fossero sufficientemente esemplari, mi taglierei la mano con quella che le ha scritte”. E mi domando: lui prese un’ascia per tagliarsi la mano, ma di quale terza mano disponeva Cervantes?