Numero 20 - La scienza, l'arte, la poesia
Radu Mihaileanu
regista
LA PAROLA NON È MAI CHIUSA
In tutti i miei film il problema dell’identità è centrale. In Vai e vivrai, in Africa c’è una madre cristiana condannata a morte insieme al figlio. Per salvare il bambino, deve infiltrarlo in un gruppo di profughi ebrei, spingendolo a mentire sulla propria identità. Per cui questo bambino mentirà, andrà in Israele, perdendo la sua identità, dicendo di essere ebreo. Oggi stiamo imparando a conoscere una ricchezza del nostro mondo: il meticciamento o la mescolanza. Ma siamo a metà strada, abbiamo paura e non sappiamo se il meticciamento identitario, la mescolanza, ci salverà.
Oggi, l’identità è una delle maggiori fonti di conflitto. Da un lato, la mente umana è molto avanzata e l’uomo ha già operato la scelta di un meticciamento delle culture, attraverso internet, la musica, i libri, l’architettura, la pittura e tutte le arti, e anche attraverso la vita quotidiana. Ma c’è allo stesso tempo una regressione, una parte del cuore dell’umanità regredisce verso il lato tribale delle culture. Io ritengo che una possibile soluzione dei problemi stia nell’accettare le nostre ricche e varie identità, ma anche nel gettare dei ponti fra queste identità.
Mio padre, ebreo, è riuscito a fuggire da un campo di concentramento. Aveva un nome di chiara origine ebraica, Mordechai, che ha dovuto cambiare per sopravvivere, e ha scelto il nome Mihaileanu. A me, che ho ereditato da tutto ciò, spesso mi si è presentata la domanda: sono Mordechai o Mihaileanu? La verità è che sono tutt’e due: ho i capelli ricci e il naso pronunciato, però sono contento con tutti e due gli aspetti. Sono contento che nella vita intervengano altri bug, come accade al computer: sono diventato francese, ho vissuto in Africa, sono contento di assumere e di respirare tutte le identità del mondo. Ho avuto la fortuna anche di lavorare con Marco Ferreri e quindi sono diventato anche un po’ italiano.
Quando sono andato via dalla Romania, a poco più di vent’anni, ho vissuto tre settimane difficili in Israele. Se fossi rimasto lì, avrei dovuto prestare servizio militare, dunque, fare la guerra, e io sono uno che non potrà mai uccidere un altro, anche se so che nella storia dell’uomo ci sono momenti in cui occorre fare una scelta, difendere dei valori. Così ho fatto la mia scelta definitiva: partire per la Francia, anche se avrei voluto restare ancora in Israele. Soprattutto oggi, la voglia di trascorrere del tempo in Israele si fa sentire sempre più. Penso che Israele e Palestina siano due paesi in cui accadono molte cose dal punto di vista della materia umana, come mi è capitato di scoprire anche in Sud Africa e in Argentina, altri due paesi sull’orlo del precipizio.
Io sono sempre stato fiero di essere ebreo, di appartenere al popolo del libro. Ma un giorno ho visto un mio cugino, che aveva un foro in un orecchio provocato da un proiettile e gli ho detto: “Voi israeliani avete tradito lo spirito del popolo del libro”. La sua risposta è stata: “Io ho combattuto tre guerre, sto sempre in ascolto della radio e quando trasmette una certa canzone so che devo tornare in guerra”. Mi è bastato per capire la differenza tra giudicare dall’esterno e vivere all’interno una situazione. La storia di Vai e vivrai parla molto di questo, della bellezza e della complessità della società israeliana, e parla della difficoltà di questo paese che nutre il desiderio di essere una terra promessa ma, purtroppo, talvolta non è che un paese come tutti gli altri, abitato da esseri umani con pregi e difetti. Mentre tutto il mondo chiede a questo paese perché è molto piccolo e soprattutto perché gli ebrei hanno vissuto la Shoah che sia una terra promessa abitata da un popolo perfetto. Nell’alfabeto semitico non si scrivono mai le vocali, per cui s’immagina che Dio, se esiste, ci abbia insegnato fin dall’inizio la libertà e la responsabilità, perché noi abbiamo la scelta di mettere le vocali che vogliamo nel testo.
Ma questo significa anche che la verità assoluta non esiste, che tutto è soggetto a interpretazione e che una parola non è mai chiusa, ma sempre aperta, aspetta il nostro respiro, le nostre vocali, aspetta che noi le ricordiamo che non è in prigione. Questa è appunto la mia relazione con le parole ed è per questo che la Torah è un libro che non ha verità e nelle grandi discussioni talmudiche ci sono sempre due allievi, due discepoli, che hanno opinioni diverse. La povertà, la tragedia sarebbe avere la stessa opinione e la stessa interpretazione di un fatto: se l’avessimo, saremmo in un lago, non nel fiume.
Sono ebreo ma non religioso. Quando creo un libro o un film non ho un’apparecchiatura che possa identificare l’ebraismo nelle mie opere. Sono soltanto un essere umano e creo con la mia testa e col mio cuore, poi emerge quello che sono, l’ebreo, il francese, l’italiano, il rumeno, il sudafricano. Io cerco di vivere nel modo più intenso possibile, di fare più cose possibili, di comprendere più cose possibili, di fare quell’itinerario, quel cammino che è la mia arte. E non ho mai saputo dire se faccio cinema per vivere meglio o se vivo per fare cinema. Quando dico vivere meglio intendo dire che per me fare un film è un pretesto per incontrare persone ed è il mio pretesto per incamminarmi, per fare la strada e, quando intraprendo la strada, ancora non so quale sia l’identità.