Numero 20 - La scienza, l'arte, la poesia
Gregorio Scalise
pittore, scrittore, drammaturgo
LA LUCE TRA LE BRACCIA
Se nei loro lavori precedenti della collana “L’arca. Pittura e scrittura” (Spirali), Shen Dali e Dong Chun stabilivano vertiginosi contatti fra la poesia cinese e la pittura occidentale, in questa nuova pubblicazione, che riguarda Ferdinando Ambrosino, pittore campano vivente, e Andrej Rublëv, un monaco-artista russo, nato intorno al 1360 e morto a Mosca nel 1430, il loro sguardo-indagine si sposta, ma fascino e problematicità restano. I due autori si muovono fra icone e vangeli, leggende russe e richiami della cultura e poesia cinese e poesia francese. E non mancano richiami al buddismo. Una così ampia rassegna di saperi non può essere qui riferita che per esempi. Anche perché il metodo di esposizione e di ricerca di Shen Dali e di Dong Chun potrebbe definirsi un metodo “lirico”. Serviamoci di alcune osservazioni di Aleksandr Kushner (La poesia di San Pietroburgo, Spirali): “La lirica è una attenzione rivolta all’uomo, a qualsiasi oggetto, a qualsiasi cosa, non è una faccenda di innamorati. Si tratta di una disposizione particolare nei confronti del mondo e il suo sguardo non può essere che soggettivo con un significato particolare”. Poco più avanti, Kushner si esibisce in una distinzione fra lirica e l’epica del nostro tempo. La lirica vive dove c’è rispetto per l’uomo, i regimi totalitari non si curano né del rispetto né della lirica e preferiscono l’epos. Questo epos ha un pesante volto atletico. (Se si riflette sulla poesia russa della prima parte del secolo, si vedrà come molti poeti non riescono a esprimere il nuovo corso, ancorché ci provino, ma l’epos atletico non è nelle loro corde. Sergei Esenin e Anna Achmatova, per tutti, sono poeti lirici che si trovano a vivere un trapasso di regime. Notazioni dolorose si trovano in un noto libretto di Roman Jakobson).
“La lirica ferma l’istante e questo istante vive nei secoli senza allontanarsi nel passato ci dice ancora Kushner , la lirica cura il tempo presente del verbo”. Forse, viene da pensare, proprio con la perdita del presente, causa le note vicende politiche, i poeti russi perdono l’ispirazione e non si ritrovano nel nuovo corso. Interpretazione forse romantica, ma qualcosa di simile deve essere accaduto.
Di Rublëv abbiamo un certo numero di notizie, probabilmente ha contribuito a farlo conoscere di più in Italia il film di Andrej Tarkovskij, tratto dal romanzo che lo stesso Tarkovskij scrisse (trad. it. Garzanti, 1992). Il film racconta le tappe dell’evoluzione artistica di Rublëv, uno dei maggiori decoratori di icone del Quattrocento russo. Tre ospiti, ci dicono gli autori, siedono a una tavola, sono angeli e hanno il bastone del pellegrino. Shen Dali e Dong Chun, con i versi di Daniel Ange che introducono il commento, dicono: “Tre viaggiatori incontrati all’ombra delle querce già ci hanno fatto presentire qualcosa della loro terra”. Si tratta di un episodio biblico, Abramo e la moglie Sara offrono ospitalità a tre viandanti, ma nell’icona di Rublëv gli ospitanti sono cancellati dalla scena. Sembra di vedere un movimento immobile, si tratta di una sorprendente intensità lirica, dove il movimento diventa il suo opposto in una volontà di intensità di un momento altamente lirico. Come fanno notare gli autori, si svolge un silenzioso dialogo, la messa in atto di un’azione attraverso una non azione, silenzio che produce parola, il Padre parla col Figlio e con lo Spirito. L’opera si presenta al di fuori del contesto veterotestamentario. La gente del nostro tempo, ammoniscono Shen Dali e Dong Chun, ha bisogno della luce interiore come insegna lo Zen. In occasione delle esequie del suo amatissimo Aleksandr Block, la Achmatova (e siamo nel 1921) racconta che parenti e amici portarono le spoglie del poeta alla santa Madre di Dio. La venerazione della Santa Vergine è una tradizione anche russa, come ci ricorda La vergine della tenerezza di Vladimir, di Rublëv. Se l’intensità lirica è l’istante fissato in versi o in figure, ecco che forse è possibile rendere percepibili questi cortocircuiti. Se la Trinità è del 1422-1427, la Vergine è del 1408, si capirà come nel loro metodo vertiginosamente comparativo gli autori non seguono metodi storicistici, ma puntano a trovare quei luoghi di raccordo che possono portare lo sguardo verso un oltre percettivo. In genere l’icona non è un quadro nel senso usuale del termine, le icone, si è detto, “vedono un altro mondo”. La luce dell’icona più che luce è luminescenza, è un oggetto votivo che trova la sua appartenenza in una chiesa. Le icone sono “introverse”, sintetizza Kushner, e parla anche di prospettiva rovesciata, insomma, come la pittura occidentale vedeva il mondo prima di Giotto. Altri esempi sarebbero da portare, ma commentare queste pagine è un po’ come togliere la polvere dalle ali della farfalla. La suggestione è tutta lì, nella rapidità dell’accostamento, nell’istante lirico che viene fatto vivere al lettore nei confronti improvvisi.
Nato nel 1938, Fernando Ambrosino non riceve meno cure e attenzioni. Introducono il commento al suo Festa di carnevale versi di Téophile Gautier (Carnaval): “Venezia si veste per il ballo/costellato di lustrini,/scintilla, brulica e chiacchiera/il carnevale variopinto…”. L’accostamento accresce il quadro di Ambrosino e d’un tratto i segni sembrano quasi roteare. Per Filomena, ritratto della moglie del pittore, vengono chiamati alla ribalta Paul Éluard e Louis Aragon, (l’innamorato della Russia sovietica e di sua moglie Elsa Triolet): “E i suoi capelli dorati quando viene a sedersi/e pettinare senza dire niente un riflesso d’incendio”. L’amore materno, ci dicono gli autori, è il cuore del disegno, un’icona mediterranea, secondo la definizione di Armando Verdiglione, forse un ricordo della Vergine di Rublëv. Ma quello che colpisce nell’erudizione di Shen Dali e Dong Chun è il loro volgersi verso le cose semplici, disegnandole con precisione di accenti. Ci avevano avvertiti, citando Il libro dei mutamenti, la bellezza è semplice e spoglia. Nella Foresta, del 1990, i versi di Leconte de Lisle permettono ai due autori di parlare degli alberi di Ambrosino radicati nel profondo del terreno. Oppure, prendiamo L’aurora della vita (del 1990) che suggerisce il controcanto di Lao Zi nel Tao Te King (Il libro della Via e della Virtù): “Ogni essere porta il buio sulla schiena/e la luce fra le braccia”. Queste contrapposizioni, quadro, poesia francese o poesia del mondo, citazioni, cinema, ci permettono fra l’altro di accorgerci di ciò che ci sta effettivamente (liricamente?) davanti. Portare il buio sulla schiena e la luce fra le braccia ci mette in contatto, per esempio, con i versi dovuti al poeta alsaziano Paul Schneider: “Il tempo è scivolato sotto gli alberi/amo il paese dei tuoi occhi”. Si vuol dire che il senso delle cose non solo non appare subito ma che a esso occorre dedicare una particolare attenzione, perché in effetti siamo esseri… col buio sulle spalle e la luce fra le braccia.
Come ultimo esempio da riportare non si può che scegliere la tela del 2001, Gerusalemme celeste, città così dolorosamente e terribilmente attuale. I due autori ci dicono che Ambrosino sembra quasi produrre un’icona, essendo la composizione giocata con uno slancio di verticalità.