La Città del Secondo Rinascimento

Numero 18 - Il cervello dell'impresa

Carlo Sini
docente di filosofia teoretica all'Università Statale di Milano

SAN BENEDETTO E L'EUROPA

Se dovessi attribuire una nascita simbolica alla modernità in Europa, sceglierei una data che forse non avete in mente: il 529, anno in cui viene fondato il monastero di Montecassino. Piaccia o no a Chirac, è lì la nascita dell’Europa, quando San Benedetto lancia per tutta Europa i suoi monaci per costruire una rete che da allora non è più venuta meno ma che prima non c’era. Lancia i suoi monaci sulla base di un motto che tutti noi ricordiamo: “Ora et labora”. E si tratta di capire bene cosa vuol dire “orare” e “laborare”, per un benedettino. Aggiungerò un particolare che non è marginale ma che forse è destinato a diventare nel futuro sempre più centrale: era norma assoluta e tassativa che nessun monaco benedettino possedesse privatamente alcunché. Ed è da questa intuizione che – soltanto mettendo insieme la preghiera, cioè l’invocazione, cioè l’amore del mondo e degli altri esseri umani e di tutti i viventi, con l’opera della mano, solo in questo modo – si usciva dal passato, dalla catastrofe del mondo antico, da quel che era accaduto un secolo prima, nel 410, quando in tre giorni tremendi Roma fu distrutta dai Visigoti.

A partire da San Benedetto e i benedettini incomincia la profonda intuizione che la verità è affidata all’opera congiunta del guardare il cielo e dell’operare con le mani sulla terra, all’opera di congiungimento di questi due poli, quello ideale e quello reale. Questa è la grande differenza del monachesimo occidentale rispetto a tutto il monachesimo contemplativo orientale, questa è l’Europa, che in mille anni troverà nel Rinascimento il suo culmine, il suo progetto dispiegato. Progetto dispiegato che si esprime nel superamento delle divisioni tra il sapere accademico, il sapere universitario, il sapere retorico, il sapere letterario e il sapere delle botteghe d’arte. Vedo una continuità strettamente congiunta, di una pregnanza, di una cogenza assolutamente importante che nelle scuole non s’insegna: i benedettini sono l’Europa! Hanno costruito le loro abbazie secondo il criterio che dall’una si doveva vedere l’altra, e sono arrivati in Gran Bretagna in questo modo e hanno insegnato ai popoli a pregare e a lavorare e a comprendere quale era il frutto del lavoro umano, a santificare il frutto del lavoro umano.

Queste cose si possono dire senza essere religiosi, ma comprendendo il fondamento profondamente cristiano dell’Europa; donde l’assurdità delle obiezioni sul richiamo al cristianesimo nel preambolo dell’Unione Europea, sostenute dagli amici francesi che credono in questo modo di salvare il loro illuminismo, cosa importantissima, ma ben poco rispetto a quello che hanno fatto i monaci benedettini. L’Europa è stata costruita, allora, sulla base di questa identità che si smarcava dall’Oriente, che definiva un progetto. Progetto che poi nelle scuole, nelle botteghe artigianali fiorentine, ma non soltanto, nell’arsenale dei veneziani, nei progetti di cartografia degli italiani, dei portoghesi, degli spagnoli e poi nella grande diffusione geografica in tutto il mondo, ha determinato il profilo dell’Europa, determinato una volta per tutte nell’unione di arte delle mani e dell’ingegno: geografia, cioè capacita di scrivere il proprio progetto nella terra, tecnologia e, infine, scienza.

Ma in quel progetto, in quel mondo progettuale, italiano, fiorentino e poi europeo, che partiva dall’intuizione di Benedetto da Norcia, qual era l’essenza? Io direi in una parola, la figura, il sapere della figura. Leonardo da Vinci – leggete il libro di Verdiglione su Leonardo, è bellissimo – aveva capito che la pittura è ben altro che una semplice arte in senso estetico. La pittura è la capacità di entrare nella natura, di impadronirsi della natura, di riprodurla. Leonardo, nel momento in cui ha anticipato Galileo sul piano del ritrovamento della matematica e della geometria, vi aggiunge la figura, la macchina che si muove, l’uomo che vola. Ma quando diceva di sé “omo sanza lettere” non intendeva dire di essere un ignorante, ma di aver rotto i ponti con la retorica antica che è stata ereditata e ha avuto grande peso in tutto l’umanesimo, era la retorica di un mondo di schiavi e di signori, dove i signori non avevano bisogno di guardare alle mani perché le mani erano quelle degli schiavi e avevano bisogno piuttosto di accordarsi attraverso la retorica. La retorica si è mantenuta nella tradizione occidentale, ancora oggi è presente nelle strutture politiche, ma credo che però non abbia futuro. È già stata condannata dal Rinascimento e, se ci sarà o forse è già in atto, come si potrebbe pensare, un secondo rinascimento, questo sarà fortemente antiretorico e in questo senso antiletterario.

Ma allora quale tipo di cultura, quale tipo di pedagogia, quale tipo di formazione occorre oggi? Come possiamo immaginare una formazione che tenga conto della grande lezione che i monaci medioevali hanno diffuso per tutta l’Europa per secoli costruendo le loro basiliche, i loro conventi, i loro chiostri? Erano geografie del sapere, luoghi in cui tutto il sapere convogliava nelle figure dei capitelli, i famosi chiostri della Catalogna. Sono enciclopedie scolpite sulla pietra, sono musica nella pietra: è stato dimostrato che queste figure sono anche una notazione musicale, di inni musicali, sicché quando il monaco passeggiava per il chiostro vedeva e sentiva con le orecchie interiori l’inno del proprio santo protettore. Sono cose meravigliose fatte con un ingegno che veniva dal pregare e lavorare, e la mente e la mano non erano disgiunte. Come possiamo immaginare una costruzione benedettina del sapere, come possiamo immaginare una formazione come quella che poteva avere il Verrocchio, maestro di Leonardo? Niente di più lontano, oggi. Antonio Baldassarre, nel suo intervento a questo forum (Brainworking. Il cervello dell’impresa, Confindustria Modena, 25 novembre 2005), diceva che l’università ha tentato l’ennesima trasformazione e questa volta, in forma molto massiccia, è riuscita a produrre una legge. È andata, purtroppo, nella direzione completamente sbagliata, non ha prodotto niente di ciò che serviva, anche se aveva intenzione di farlo, anzi, ha peggiorato la situazione, perché noi dobbiamo smetterla di considerare separatamente la cultura dalla produzione giornaliera della vita, dalle cose della vita. Noi abbiamo bisogno di una ristrutturazione totale dei nostri mezzi di formazione e d’informazione, probabilmente abbiamo bisogno d’immaginare qualcosa di diverso dalla scuola pubblica, che ha fallito. Non dico che dobbiamo eliminare la scuola pubblica, è stata una chance per tutti coloro che non avevano possibilità di studio. Tuttavia, così com’è, è diventata un inganno per coloro che non hanno mezzi per studiare perché non li forma minimamente, non li prepara a nessun lavoro, non gli dà nessun futuro e allora ritorna assolutamente vero che staranno meglio quelli che hanno più soldi e che vanno a seguire i corsi all’estero nelle scuole di specializzazione. Sono molto sospettoso nei confronti delle scuole di specializzazione in Italia, perché saranno solo mafiose. Non siamo capaci di quella trasparenza, di quella lealtà che invece sono così tipiche delle nazioni liberal-borghesi. Noi non abbiamo una cultura liberal-borghese e non ce l’avremo mai. Ma è proprio il caso di piangere per questo? Non credo, per un ragionamento che va aggiunto. Dobbiamo capire che la modernità incomincia molto prima dell’illuminismo e del liberalismo, che è stata costruita sulla base di una visione operativo pratica del sapere, pragmatica, che è la nostra specializzazione di occidentali che ci differenzia dal resto del mondo. Tutto questo va tenuto ben presente per pensare nuovi modelli di formazione che non siano i modelli di formazione del vecchio professionista – il dottore, l’ingegnere, l’avvocato –, che si rivolge  alle classi subalterne perché gli lavino i calzini e gli facciano da mangiare. Questa realtà di signori e di schiavi non c’è più, occorre trovare altre modalità.

Per questo non dimentichiamo l’esempio che è stato portato da Baldassarre e che è motivo di grande riflessione. Diceva che le università migliori americane, che hanno rette altissime, insostenibili per un padre italiano, hanno una percentuale – non so se proprio il cinquanta per cento – di studenti che possono seguire i corsi e laurearsi unicamente per i loro meriti per i quali avviene un investimento statale. Avviene qualcosa del genere anche in Germania in cui lo stato investe sugli studenti meritevoli. Questo già è un grandissimo esempio da seguire, ma occorre ricordare che è stato creato dalle scuole rinascimentali italiane. Questa è proprio la rivoluzione pedagogica del Rinascimento italiano, dove i grandi pedagogisti del cinquecento chiedevano al principe d’istituire una scuola per i sudditi divisa in due categorie, quelli che pagavano due rette e quelli che non pagavano, appunto, i poveri. Questa era la grande innovazione della pedagogia rinascimentale, ed è una cosa bellissima che il mondo occidentale la riscopra in età liberal-borghese.

Dicevo, però, non piangiamo troppo se noi veniamo dall’aristocrazia del lavoro di bottega, dall’aristocrazia delle mani, perché con le mani le gerarchie si fanno subito, c’è chi ce la fa e chi non ce la fa, c’è chi è capace e c’è chi è meno capace e deve un po’ alla volta imparare. Liberalismo e democrazia diventano inutili in questo modo di lavorare, anche se sono stati utilissimi a livello politico. La borghesia e i valori liberali sono stati un capitolo straordinario della storia europea, hanno sanato la contesa religiosa che era arrivata al punto d’insanguinare tutta l’Europa e che era il contrario dell’ideale benedettino, infatti, le chiese ufficiali hanno sempre avuto un certo sospetto verso i monaci che erano troppo liberi.

Nessuno vuole minimamente negare il valore della rivoluzione liberale e della grandezza dell’impresa borghese, riconosciuto anche dal più grande laudatore della borghesia, Karl Marx. Però, voi credete che questo sia il futuro del pianeta? Credete davvero che il pianeta potrà organizzarsi secondo la mentalità che è tipica del governo americano e dei paesi occidentali che sono allineati secondo quella politica? Questo non è possibile. Quel tipo di mentalità, di cultura non ha dentro le proprie carte, per dir così, un futuro sostenibile, e non sa proprio dove andare. Lo dimostra la questione Cina. La Cina è la fabbrica del mondo, produce prodotti, incrementa ricchezza, lusso, benessere.  Ma chi mai li comprerà questi prodotti? A un certo momento, coloro che producono diventano, per la logica stessa dell’economia capitalistica, i consumatori. I produttori devono essere i consumatori, questa è stata la grande salvezza del New Deal. Ma la produzione di massa ha salvato l’occidente solo attraverso l’imperialismo, senza cui non ce l’avrebbe fatta. Infatti, io non posso essere contemporaneamente l’operaio che produce la macchina e che guadagna abbastanza per comprare la macchina. Sarebbe un controsenso, torneremmo alla produzione artigianale per cui produco le cose mie e poi me le consumo. Se dobbiamo avere una produzione di massa dobbiamo avere compratori di massa. Ancora adesso funziona così, ma funziona secondo un’unica logica, cioè quella di alzare il livello del benessere del popolo cinese, per esempio, o brasiliano o indiano. Man mano che questo benessere crescerà, crescerà il costo del lavoro e si diffonderà la mentalità sanamente liberale e liberistica. Quando questo sarà globale, anche se noi non ci saremo più, dove andrà a finire la mentalità borghese capitalistica e liberistica? Verrà accantonata, perché non si può produrre così, sulla base dell’egoismo, del puro reddito finanziario, del capitale finanziario. Questo è privo di senso, di più, è contrario allo spirito dell’Europa, di quella civiltà che vogliamo diffondere. Benedetto diceva ai suoi monaci “Ora et Labora”, ovvero, ricordati, noi non possediamo niente, perché possediamo il mondo intero, possediamo il senso delle operazioni commerciali.

Questo credo che sia il compito dell’Europa, ricordare questa radice e riattualizzarla, ripensarla, riproporla nelle forme che sono oggi possibili, attuali, in una direzione che non è quella della visione dirigistica che ci viene dagli Stati Uniti.  È questa mediazione che l’Europa deve compiere: il prodotto dell’Europa è la pedagogia del mondo, questo dobbiamo fare noi. Non avremo mai grandi industrie o grandi materie prime, potremmo specializzarci in prodotti raffinati, ma quello che noi davvero abbiamo come tradizione è l’insegnamento di civiltà, proprio perché più a lungo qui la storia ha segnato l’uomo, ha contrassegnato le sue vicende. Non è un caso che la cosa italiana che dura più nel tempo sia la Chiesa, dobbiamo riconoscerlo. In qualunque parte del mondo se dico che sono italiano mi dicono “Il Papa”. Perché nell’ambito di quell’educazione dei barbari, che ci ha fatto uscire dal mondo antico, il papato e le altre chiese hanno svolto una funzione straordinaria.

Immaginate un’Europa che riesce a svolgere concordemente, nelle differenze, nella dialettica inevitabile, questa stessa funzione a livello globale,  planetario, sul piano della cultura libera, laica, quindi anche religiosa, ma di una cultura aperta al futuro perché memore del proprio passato, non soltanto del mondo antico ma anche della grande rivoluzione moderna che ha voluto dire la nascita della libertà, dell’uomo libero. Il mondo antico ci ha dato cose meravigliose, ma non ci ha dato l’uomo libero, è il mondo moderno che ci ha dato quest’idea dell’uomo libero. L’uomo libero è l’uomo che sa pregare e  che sa lavorare e proprio per questo ha, per dir così, le mani libere.