Numero 18 - Il cervello dell'impresa
Simone Storci
Marketing & Communication, Project Post Merger Integration Bosch Rexroth Oil Control S.p.a.
LAVORIAMO PER MIGLIORARE IL FUTURO
intervista di Anna Spadafora
Oil Control, nota in vari paesi per la qualità delle sue valvole, è entrata a far parte della tedesca Bosch, azienda molto particolare, sorta alla fine dell’ottocento.
Sì, la Bosch è un’azienda molto particolare. Quando il fondatore, il signor Bosch, si rese conto che l’azienda aveva raggiunto un certo sviluppo, decise che i proventi andassero a beneficio della collettività, piuttosto che soltanto a un gruppo ristretto di persone. Creò così la Fondazione che, ancora oggi, possiede la maggioranza assoluta delle azioni dell’azienda, la Bosch GMBH. Per statuto, la nostra azienda utilizza una larghissima parte del proprio profitto in attività benefiche che si svolgono in paesi del Terzo Mondo oppure in Germania, dove esistono ospedali e centri di ricerca finanziati dalla Bosch. Per noi, come Oil Control, questo è il quarto anno consecutivo con crescita a due cifre la cifra ufficiale dell’anno scorso era 160.000.000 di euro, partendo da un investimento di circa 35.000.000 ma ci stiamo preparando a crescite ancora più alte, sia perché il mercato ci supporta con nuovi clienti e nuove applicazioni sia perché la Rexroth (divisione della Bosch), la nostra casa madre, che ci ha acquisito, è in grado di mettere a disposizione sinergie importanti. L’obiettivo è quello di divenire il fornitore principale per il nostro tipo di prodotti a livello globale, esportando la consolidata leadership europea.
In un’intervista precedente al nostro giornale (n. 11), lei sosteneva che non è l’azienda a dover seguire il manuale di qualità, ma è il manuale di qualità che deve seguire l’azienda, nel senso che le procedure si riscrivono man mano che se ne trovano di migliori. Questo metodo viene trasferito in tutte le vostre sedi?
Noi non parliamo più di qualità, ma di organizzazione. La qualità deve descrivere i processi all’interno dell’azienda e individuare i miglioramenti possibili. Non può essere l’ufficio qualità a stabilire qual è il modo migliore per far girare gli ordini, ma esiste un gruppo di lavoro apposito, le conclusioni raggiunte dal quale, alla fine, sono recepite all’interno del manuale della qualità che deve essere, necessariamente, uno strumento fluido che cambia facilmente in base alle esigenze. Un discorso a parte si fa per la gestione della qualità dei prodotti, dove si controllano caratteristiche intrinseche dei medesimi.
Per molte aziende la qualità è rimasta una facciata, così com’era considerata qui all’inizio della nostra storia, quando era necessaria perché, senza le certificazioni, non si poteva progettare una lunga carriera. Questo è un approccio certamente sbagliato. Oggi abbiamo diverse certificazioni, a partire da quelle “legali”, nonostante la Bosch non sia una società quotata e non esista un requisito obbligatorio che ci costringa ad avere il bilancio certificato. Adesso stiamo occupandoci della certificazione ambientale e poi inizieremo a lavorare per le altre certificazioni, come l’EMAS per l’automotive. Puntiamo a ottenere questa certificazione perché a bordo dell’automobile cominciano a esserci sistemi che richiedono componenti analoghi a quelli che produciamo noi sistemi di sospensione, centraline per tetti apribili, cambi di velocità semi-automatici e vogliamo essere pronti, quando il momento arriverà, a entrare in maniera incisiva in questo mercato. Per lavorare in questo settore è necessario ottenere questo tipo di certificazioni che potrebbero aiutarci a ottimizzare la nostra logistica, a consolidare la crescita del fatturato e a conoscere meglio i nostri processi.
Quello che per altri è un’incombenza per voi diviene occasione di crescita intellettuale.
Lavoriamo molto soprattutto in vista di migliorare il futuro. Abbiamo quasi raddoppiato il nostro giro d’affari in pochi anni e la nostra precedente organizzazione non era più sufficiente a sostenere un carico di lavoro così grande. Riceviamo un grande aiuto dalla Rexroth e dalla Bosch, che ci suggeriscono soluzioni che loro stesse utilizzano. Inoltre, cerchiamo di condividere una serie di servizi con le altre organizzazioni presenti in Italia creando sinergie, utilizzando, per esempio, gli stessi fornitori della Bosch, che ha accesso a prezzi sicuramente diversi dai nostri, perché per fare un esempio acquista milioni di tonnellate di acciaio all’anno. La Bosch ci propone poi esempi molto interessanti di training e di crescita programmata del personale, cose impensabili prima, perché la nostra organizzazione non era dotata di uffici appositi che studiassero questi aspetti, uffici di pianificazione strategica, per esempio.
Oggi abbiamo accesso a un mondo di tecnologia enorme e a risorse che prima erano impensabili. Io sono convinto che questa sia stata la scelta giusta. Si sarebbe potuto andare avanti per conto nostro magari anche per vent’anni, ma prima o poi avremmo dovuto sposarci a un grande nome. Abbiamo preferito farlo adesso, nella piena libertà di scegliere, piuttosto che fra qualche anno, quando avremmo dovuto accettare condizioni poste da altri. Abbiamo scelto la Rexroth e la Bosch perché hanno una cultura aziendale molto simile alla nostra e i valori fondamentali sono rimasti invariati. Siamo tutti convinti che un’azienda non sia fatta solo di muri, di macchine e di telefoni, ma di persone che, se giustamente motivate e preparate, sono la base indispensabile sulla quale innestare il resto. Un’azienda senza persone è morta, inutile. Con questo non voglio dire che le altre aziende, come quelle americane, considerino le persone inutili, ma tendono a dare loro meno peso e a focalizzare la loro attenzione sui numeri e qualche volta a prendere decisioni draconiane, a dire, magari, che, conti alla mano, conviene trasferire la produzione in India. Un’idea del genere, intendiamoci, non è che venga scartata a priori nel mondo Bosch-Rexroth, ma, semplicemente, nella valutazione della sua opportunità, vengono considerati anche aspetti umani e sociali che le corporations americane tendono geneticamente a tenere in minor conto.
Le paure diffuse oggi per chi opera nelle medie aziende sono sempre le stesse.
In Italia, per diversi motivi, non siamo riusciti a sviluppare un tessuto imprenditoriale tale per cui le nostre società fossero in grado di diventare multinazionali capaci di acquistare società all’estero; tranne qualche banca e qualche ente pubblico, in Italia non esistono nuove società in grado di diventare grandi multinazionali e questo fa sì che il nostro resterà sempre un paese bersaglio per le acquisizioni. Io spero in un’accelerazione del processo di unità politica dell’Unione Europea, spero che diventi davvero irrilevante che la casa madre di un’azienda si trovi a Milano o a Stoccarda, perché adesso lo è solo fino a un certo punto, nel senso che molto di quello che ci dicono su come funziona l’Unione Europea non è affatto vero. Per esempio, non c’è ancora una vera armonizzazione fiscale, così come non esiste una piena e completa libertà di movimento per le persone e i capitali.
La questione è importante perché occorre chiedersi qual è il contributo che ciascun paese può dare agli altri. Il pensiero di un’invasione dello straniero, infatti, oltre a essere antiquato, ostacola anziché favorire la crescita.
Noi abbiamo un bisogno totale di stranieri, perché altrimenti dovremmo abbandonare l’idea di fare manifacturing e puntare tutto sul turismo o sui servizi. Ma mi chiedo quali possano essere i servizi, dato che non siamo una superpotenza mondiale in nessun campo. Credo che abbandonare il manufacturing in Italia sia quantomeno prematuro, considerando che non accade neanche in Germania, dove i costi sono mediamente più alti del 40%. Di conseguenza, dico una banalità, ci servono persone che abbiano voglia di lavorare. Sarebbe bello essere in grado d’importare solo i lavoratori senza i problemi, ma la Germania, la Francia e gli Stati Uniti, che hanno vissuto questa situazione prima di noi, c’insegnano che insieme ai lavoratori s’importano anche i problemi, che poi si risolvono. Trovo assolutamente riprovevole lo scontro di civiltà e il modo in cui è stato impostato in questo momento, è davvero controproducente. Lo scontro di civiltà è un bluff inventato per fare paura alla gente, per spaventarla e controllarla.
Mi chiedo quanto lei stesso si costituisca come cervello dell’impresa, perché non c’è ambito di cui non s’interessi. Lei si è laureato in giurisprudenza ma ama anche la letteratura?
Faccio lo scrittore a tempo perso. Einaudi ha pubblicato un mio racconto l’anno scorso, in un’antologia intitolata La notte dei blogger. La letteratura e le arti in generale mi hanno sempre interessato molto, sia come fruitore che come autore. Trovo anzi che i due impegni quello aziendale e quello artistico si complementino bene, impedendo al cervello di fossilizzarsi su un ambito solo e perdere elasticità. Tornando all’ambito aziendale, ho avuto la fortuna di dovere e potere occuparmi di tante cose e di poter stare in molti ambiti e forse proprio questa ragione unita al fatto che conoscevo bene l’inglese è stata quella che, quando è iniziata la trattativa con Rexroth, ha portato l’azienda a scegliere me per guidare la squadra dei negoziatori. Alle mie spalle c’era, ovviamente, un gruppo molto ampio che ha lavorato duramente durante tutte le fasi della trattativa. Ormai è diventata soltanto una delle tanti frasi fatte che popolano le domeniche sera italiane, ma è un peccato, perché è profondamente vera: si vince in undici e si perde in undici.