La Città del Secondo Rinascimento

Numero 27 - Questioni di salute

Marino Golinelli
fondatore e presidente del Gruppo farmaceutico internazionale Alfa Wasserman

NON APPROVO LA TENDENZA A MEDICALIZZARE

A sessant’anni dalla fondazione dell’Alfa Wassermann, qual era il progetto e quali sono le trasformazioni intervenute nel corso degli anni?

Il desiderio di fare impresa nel settore farmaceutico nasce da una vocazione degli anni universitari. Dopo gli studi e un’esperienza di lavoro in campo farmaceutico, ho acquistato i prodotti di un’azienda distrutta durante la guerra e, il 24 gennaio 1948, nasceva l’Alfa biochimici, poi diventata Alfa farmaceutici. All’inizio, ero da solo, ma ragionavo già in termini di sviluppo nazionale dell’azienda, cosa che poi si è verificata rapidamente. Oggi, oltre a me, nel consiglio di amministrazione sono operativi due miei figli. Questa struttura manageriale familiare consente la continuità e di pianificare lo sviluppo futuro.

Poiché il futuro di un’industria farmaceutica dipende anche dall’investimento nella ricerca, nel 1968, abbiamo avviato il primo laboratorio e, oggi, siamo impegnati in due settori di ricerca: quello del sangue, ormai pluridecennale, e quello che si occupa di un nostro prodotto, la Rifaximina, Normix è il nome della specialità in Italia, un antibiotico del gastro-enterico con varie applicazioni. È uno dei pochi prodotti italiani registrati negli Stati Uniti ed è in vendita in molti paesi del mondo.

Ci consideriamo tra le poche aziende nazionali di respiro internazionale, con sedi negli Stati Uniti, in Spagna, in Portogallo, in Polonia, in Olanda e con programmi di sviluppo in altri paesi.

Dal dopoguerra, lo sviluppo della ricerca è stato tumultuoso. I farmaci che vendevamo tra gli anni sessanta e ottanta non ci sono più. Questo vale per ciascuna azienda. Oggi, siamo nell’era della genetica e delle biotecnologie, riusciamo cioè a comprendere come alcune malattie derivano da modifiche genetiche. La genomica studia i geni che producono le proteine che compongono le nostre cellule. Se avviene una modificazione morbosa del codice genetico, sorge la necessità di colpire le proteine che ne derivano mediante prodotti chimici mirati. L’evoluzione dei farmaci è a questo punto e gli investimenti riguardano soprattutto la ricerca clinica, che, oltre a prevedere l’efficacia di un farmaco, deve misurarne le conseguenze, i cosiddetti effetti collaterali.

L’attenzione agli effetti collaterali è molto importante e occorre utilizzare il prodotto più adatto alla persona. Questo vale per gli adulti, il cui metabolismo, per esempio, cambia con l’età, e conta ancora di più nella medicina dell’infanzia. Una recente circolare del Ministero della salute consiglia ai medici di non somministrare gli antibiotici o gli spray nasali ai bambini e gli sciroppi per la tosse, al di sotto dei sei anni. Sono informazioni diramate già da vari anni. Il problema è che, di solito, le medicine sono studiate per gli adulti e, per i bambini, si consiglia semplicemente l’assunzione di metà della dose. Invece, non è così. Non è un caso che, oggi, la ricerca clinica punti ai farmaci personalizzati.

Attualmente, c’è un’estrema fiducia che la bioscienza porterà all’eliminazione della sofferenza. Pensa che sia auspicabile inseguire questo miraggio o, piuttosto, che la scommessa per ciascuno sia anche quella di affrontare l’inquietudine e la difficoltà nella vita? Inoltre, quale considerazione ha dell’uso sempre più frequente di antidepressivi e di psicofarmaci?

Innanzi tutto, i tempi di realizzazione di una medicina personalizzata sono lunghissimi e i media, nel dare informazioni giornaliere di nuove scoperte genetiche per la cura di una malattia, creano aspettative nel pubblico di futuri farmaci che saranno disponibili solo tra molto tempo, quello che occorre perché rispondano ai criteri stabiliti dalle autorità sanitarie per la loro autorizzazione. Inoltre, bisogna considerare anche l’impatto dei costi che una medicina così evoluta avrà sul nostro sistema sanitario. Un tema che pochissimi affrontano.

La salute dell’uomo dipende non solo da un diverso approccio di carattere tecnico-scientifico, ma da un insieme di comportamenti. Bisogna incominciare dal periodo scolastico per dare le basi di un modo di vivere che segua le ragioni della salute: si va, quindi, dall’alimentazione allo stile di vita e, altresì, a una formazione più umanistica della persona. Il problema esistenziale di ciascuno di noi non si risolve con la buona medicina, ma con un complesso di fattori. Il dolore o la sofferenza non sono dati solo da un cattivo funzionamento del corpo.

Oggi, c’è la tendenza a medicalizzare. Io non l’approvo ed è un problema che deve preoccupare, perché è il problema dei giovani nell’affrontare le esigenze della vita. Conta molto anche la formazione che viene dagli adulti. Quando si consiglia ai giovani di usare alcuni prodotti, come per esempio i sedativi, si fa un danno enorme, come quello di ricorrere alle droghe.

Sono due facce della stessa medaglia…

È un problema gravissimo della società che si può affrontare solo con la formazione. Questo è l’impegno della Fondazione filantropica che ho creato vent’anni fa. Noi supportiamo le scuole con laboratori di biotecnologia e genetica, organizziamo La Scienza in Piazza™, incentiviamo la cultura scientifica e la combinazione tra arte e scienza. Nei nostri laboratori del Life Learning Center, in via della Beverara, a Bologna, ogni anno, settemila ragazzi imparano il metodo scientifico utilizzando le loro stesse mani. Imparano che non c’è una sola verità, ma ce ne sono tante e sono, piuttosto, ipotesi di verità. Così è per la malattia: è un complesso di disfunzioni, ma capire quale sia la sua origine è complicato. Polimorfismo è il nome dato alla complessità delle modifiche genetiche che determinano alcune malattie. Solo in due o tre malattie il gene modificato è uno. In questo caso, correggendo quel gene si può guarire. Ma quando sono più geni a modificarsi, le cose si fanno più complesse. Per questo, saranno pochi i farmaci personalizzati.