Numero 21 - La modernità
Joseph Berke
fondatore e direttore dell'Arbours Housing Association e del Centro Arbours Crisis per il disagio (Londra)
MOLTE CURE MI PREOCCUPANO
Intervista di Sergio Dalla Val
Lei è stato uno dei fondatori dell’anti-psichiatria. Quali sono i risultati che ha dato il movimento anti-psichiatrico e che cosa è rimasto oggi?
Oggi non esiste nessun movimento anti-psichiatrico. Negli anni sessanta, Ronald D. Laing, a Londra, proponeva un metodo, alternativo ai tradizionali metodi psico-biologici per aiutare le persone, che poi è diventato popolare in Italia con il maoismo e utilizzato in politica. Ci sono stati anche alcuni esperimenti a Trieste e a Bologna nel campo della psichiatria e della politica. Ma a Londra non c’è mai stato un movimento politico in grado di far cambiare la psichiatria. L’unico risultato è stata la costituzione di comunità e associazioni. I gruppi di Laing esistono ancora e sono organizzati in associazioni. Ho lavorato con lui fino al 1970, poi ho deciso di separarmi. Sono stato in India e in Sri Lanka e poi ho fondato un’organizzazione Arbours Housing Association, che allude al riparo che danno gli alberi. Volevo dare riparo alle persone che si trovavano in uno stress emozionale. Abbiamo incominciato con una piccola casa nel 1970 e poi, nel 1973, abbiamo aperto l’Arbours Crisis Centre, una casa terapeutica. Quindi, siamo diventati un centro per la crisi e il disagio, in cui arrivano persone che sono considerate ospiti, termine che non ha nulla a che vedere con ospedalizzazione. Gli ospiti rimangono per un periodo di tempo che va da alcuni giorni a alcune settimane o mesi. Ormai lavoriamo da trentacinque anni.
Non pensa che sarebbe interessante anche oggi un movimento anti-psichiatrico, considerando l’immenso uso di psicofarmaci e la forza delle multinazionali farmaceutiche?
Oggi chiunque è pronto a somministrare farmaci per creare nuove malattie e per formulare nuove diagnosi. Credo però che il contesto dell’anti-psichiatria si possa individuare nella rivoluzione degli anni sessanta. Mia moglie studiava a Berkeley, dove era una vera rivoluzionaria. Anch’io sono stato un rivoluzionario a New York e a Londra per un paio d’anni. Oggi, le persone sono passive. Non c’è il terreno per un’altra rivoluzione. Ecco perché sono contento di continuare a lavorare con le nuove generazioni.
Ritiene che la psichiatria sia un residuo delle mitologie mediche ottocentesche o uno strumento per la salute nella modernità?
Dipende da chi sottopone a trattamento chi. E dipende da chi soffre. La sofferenza, secondo me, può essere utile. Temo che molti miei colleghi psichiatri utilizzino i loro pazienti per curare se stessi, proiettano le loro malattie sui loro pazienti. Quindi, temo che la psichiatria sia pericolosa sotto vari aspetti. La maggior parte delle medicine somministrate sono veleni. Molte cure mi preoccupano. Nel XIX secolo, se una donna sposata smetteva di essere una brava casalinga e si ribellava, in Inghilterra, per esempio, poteva essere presa e legata a una panca: così poteva imparare a comportasi bene. Oggi, se una moglie è ribelle e tenta il suicidio buttandosi dalla finestra, la portano in ospedale, le somministrano psicofarmaci e le fanno l’elettroshock.
Può parlare della sua attuale attività terapeutica? Che cosa fa?
Che cosa faccio? A volte, mi pongo anch’io questa domanda. Abbiamo una casa molto grande in cui ospitiamo un massimo di sei persone e tre psicoterapeuti. Abbiamo tre modalità d’intervento. Quando arriva qualcuno come residente, formiamo un’equipe, che io seguo dall’esterno. C’incontriamo tre o quattro volte alla settimana. È una forma di terapia di gruppo molto singolare perché, invece di avere molti pazienti e un dottore, abbiamo molti dottori e un paziente. Così conteniamo il disagio. Non utilizzo mai i termini pazzia o malattia, ma soltanto il termine disagio. Le persone sono disagiate, hanno un dis-agio. Le persone che stanno male possono venire nella mia casa. Spesso queste persone sono spaventate perché si trovano in un posto nuovo e noi cerchiamo di tranquillizzarle. Devono attraversare cinque fasi. La prima è quella dell’arrivo: ci presentiamo e io chiedo a queste persone da dove vengono. Spesso sono preoccupate, si sentono in trappola. Quindi, occorre guidarle nell’esperienza di familiarizzazione della casa. Nella seconda fase si stabiliscono. Nella terza si sistemano. A questo punto incominciamo a esplorare quali sono i motivi per cui queste persone sono venute, qual è il loro disagio. Poi incominciamo a socializzare, a instaurare relazioni e cerchiamo di far emergere quelle sensazioni che sono intrappolate come se fossero all’interno di un foruncolo della pelle. La quarta fase è quella in cui vivono nella casa e la quinta quella in cui analizzano ciò che è accaduto durante il loro soggiorno. Le persone spesso ritornano nella casa. Ci sono luoghi d’incontro nella casa e questo aiuta moltissimo gli ospiti. Poi c’è l’arte, la musica, il teatro. Di recente ho invitato anche gli ospiti della casa a una mia conferenza intorno all’io e l’anima in psicanalisi. Non hanno capito molto, ma è stato interessante che siano venuti e non siano stati trattati da pazienti, ma come persone che volevano seguire la conferenza.
Cosa pensa dell’uso sempre più diffuso degli psicofarmaci per i bambini?
Credo che tutti i farmaci di oggi siano placebo. Quando molte delle persone che vengono al centro smettono di prendere una pillola, per esempio, somministro loro un’altra pillola. Ma è solo una caramella, una caramella blu a forma di frutto, come un’arancia, che loro chiamano paradiso garantito.