La Città del Secondo Rinascimento

Numero 28 - La politica del tempo

Ferdinando Cionti
giurista e giornalista

LA TRASFORMAZIONE DEI BENI E IL LORO VALORE

Prima che nei comuni italiani, e in particolare a Venezia, fosse inventato il capitalismo, era convinzione diffusa che i beni esistenti in natura fossero finiti, come quelli immobiliari, che costituivano la ricchezza complessiva di una comunità, cosicché i singoli ne erano già proprietari “per censo o eredità” o li sottraevano agli altri; inoltre, ciascun bene aveva un determinato valore corrispondente a un determinato giusto prezzo, cosicché qualsiasi aumento ingiustificato comportava un approfittarsi (nell’accezione negativa del termine) dell’ignoranza o del bisogno dell’acquirente, con la conseguenza che la ricchezza complessiva era sempre la stessa e la sua ripartizione poteva cambiare solo illecitamente.

Questo valeva con riferimento al bene così come si trovava in natura; se invece si trattava di un oggetto d’importazione, andavano calcolate le spese e i rischi relativi e, se si trattava di un manufatto, il lavoro necessario per ottenerlo. Tuttavia, alla fine, una mela era sempre una mela e il suo valore non poteva che essere lo stesso, per quanti fossero i passaggi di mano; un dattero importato era un dattero più le spese di viaggio. Il di più era truffa o usura.

Senonché, il caso del manufatto, qualcosa di nuovo rispetto ai suoi componenti, poneva qualche problema che s’ingigantì quando divenne prodotto industriale, che incorporava innegabilmente un plusvalore. Ebbene, la fabbricazione del prodotto richiedeva la presenza delle due componenti classiche: capitale e lavoro. Il capitale era costituito da un eventuale capannone, dagli strumenti necessari e dal denaro occorrente per pagare i salari, e cioè da elementi “statici” che certamente non potevano produrre da sé plusvalore. Il quale, perciò – secondo Marx – non poteva che essere il risultato del lavoro degli operai che “fabbricavano” materialmente il prodotto. Ed essendo il capitalista colui che si appropriava del plusvalore, nacquero i conflitti di classe che sono la storia di quasi due secoli. Ma in questo ragionamento restava un arcano: il capitale iniziale.

Cerchiamo una risposta ripartendo dall’inizio. Già nel XII secolo, la città era diventata un irresistibile polo di attrazione per i mercanti e gli artigiani che volevano commerciare e produrre in proprio e per i servi della gleba che volevano sottrarsi al giogo dei padroni. La tendenza naturale dell’individuo è quella di provvedere personalmente alla soddisfazione dei propri bisogni. Così se, per esempio, un pastore primitivo aveva bisogno di una bisaccia, faceva seccare la pelle di una pecora e la cuciva in qualche modo. Quando fu inventata la concia delle pelli, la loro coloritura e confezione secondo tecniche e modelli particolari, divenne antieconomico apprendere tali tecniche per confezionare le due o tre borse di cui ciascuno poteva avere bisogno nel corso della vita, mentre divenne economico apprenderle per confezionare un numero imprecisato di borse per gli altri. Con la conseguenza che nella borsa dall’artigiano erano compresi due elementi costitutivi: la materia prima e il lavoro.

Il secondo elemento costitutivo della borsa, il lavoro fisico, era materialmente percepibile, ma nella medesima borsa era compreso un elemento immateriale, la competenza tecnica, che non veniva percepita, ma costituiva una spesa reale che l’artigiano aveva sostenuto per l’apprendistato e un vantaggio economico altrettanto reale che l’acquirente della borsa realizzava risparmiando il medesimo apprendistato: spesa e corrispondente risparmio che si concretizzavano appunto nel plusvalore, che Marx attribuiva invece al lavoro fisico.

Eppure, l’arricchimento dell’artigiano non si verificava a detrimento dell’acquirente, ma con suo contestuale vantaggio, cosicché non modificava soltanto il grado di concentrazione di ricchezza, e perciò di mezzi di produzione, in capo all’artigiano, ma generava un autentico incremento della ricchezza.

Un bene può incorporare una componente immateriale che costituisce il suo plusvalore e che per giunta è rinnovabile illimitatamente, perché l’artigiano con il suo manufatto non vende anche la sua competenza che conserva e che, anzi, con il moltiplicarsi delle applicazioni, lungi dall’esaurirsi, generalmente aumenta.

Questa componente immateriale va dalla competenza dell’operaio specializzato a quella dell’artigiano, dell’artista e dell’inventore. Per quel che riguarda l’industria è notorio che il suo sviluppo è attribuibile alla divisione del lavoro, secondo il principio già operante nel caso dell’artigiano, che da Smith in poi tutti hanno riconosciuto come causa della ricchezza, ma che nessuno ha riconosciuto come un valore immateriale incorporato nel prodotto e attribuibile esclusivamente all’industriale.

E se non c’è trasformazione? Ebbene, tutte le attività economiche sono accomunate da un medesimo fenomeno: come per la produzione, così anche per il commercio e per la finanza, il bene non è mai sempre lo stesso, lo è solo materialmente. Poiché altro è la cosa materiale, che in sé e per sé può non avere nessuna funzione e, quindi, nessun valore, e altro è il bene finalizzato alla soddisfazione di un bisogno umano e, dunque, provvisto di funzione e valore.

Ebbene, il mercante non faceva, e non fa, altro che adattare ai, o scoprire i, nuovi bisogni che una cosa – qualunque essa sia, compreso il danaro – possa soddisfare, diventando un bene, diverso o non, ma sempre di maggior valore.

Ma, parlando d’immaterialismo economico, noi stiamo facendo un’operazione culturale di retroguardia.

Nei secoli passati, per designare la realtà fondamentale, il pensiero ha fatto uso del termine essere. Oggi la fisica c’insegna che occorre utilizzare un altro termine per la realtà fondamentale: energia. A partire dal 1905, da quando Einstein formulò la celebre equazione E= mc2, sappiamo che ogni massa, ogni corpo materiale, che noi vediamo lì, fermo, statico, impenetrabile, in realtà non è in sé nulla di tutto ciò. Non è fermo, non è statico, non è impenetrabile, ma giunge a essere tale al nostro livello dell’essere, grazie a un vorticoso movimento, di una velocità inimmaginabile. Un foglio di carta, una penna e ogni altra cosa reale è energia. Ogni corpo di massa m viene da E e ritorna a E.

Non solo, ma l’evoluzione in virtù della quale, dalla polvere stellare, attraverso un processo durato miliardi di anni, è emerso il nostro corpo (gli occhi, le mani, il cervello, con i suoi cento miliardi di neuroni) non è altro che relazione, per alcuni ordinata, per altri casuale, ma pur sempre relazione, o web – che se ordinata possiamo chiamare nel modo classico logos –, che muove la vita.

Ben per questo Google, che non è nulla di materiale, è divenuto quel colosso che è.