La Città del Secondo Rinascimento

Numero 28 - La politica del tempo

Sergio Dalla Val
cifrematico, brainworker, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

IL CONTINGENTE

In un millennio che si è aperto ostentando dittature, genocidi, stermini e terrorismi, c’è ancora posto per la politica? Definire la politica “arte del possibile” è un modo per giustificare un operare, sempre a fin di bene, appellandosi a uno stato di necessità.

La necessità della politica è postulata come aiuto a tutte le necessità risolutive, e quindi anzitutto alla necessità della morte, che da Aristotele non cessa di essere il male ultimo e necessario degli umani, la soluzione di tutto. Così, la necessità della politica risulta la necessità stessa della morte, la necessità della fine, che si formula come necessità infinita della fine della politica, come promette ogni buon politico che si rispetti, cioè ogni antipolitico, che riempia il parlamento o le piazze, le cellule o le celle. La fine della politica in nome del politicamente corretto, ovvero della tutela dei particolarismi individuali e collettivi, è scandita dalla regressione democratica di cui parla Alain-Gérard Slama in questo numero. La regressione democratica è in nome della necessità della politica che insegue il bene comune.

La politica non necessaria è la politica senza l’idea di morte. Questa politica non ha più bisogno della paura: non a caso, proprio nel libro Niccolò Machiavelli (Spirali), Armando Verdiglione dedica un capitolo alla paura. La paura cui gli umani si accodano nasce dall’idea della necessità politica della morte. Per la necessità politica della morte gli umani muoiono di paura. La necessità politica della relazione sociale comporta l’orrore, quella dell’eliminazione dell’oggetto il terrore, quella dell’espunzione dell’Altro il panico e quella della coniugabilità dell’odio lo spavento. E la politica si propone come necessaria per salvare gli umani da questi contropiedi e contrappassi che lei stessa fomenta.

Le teorie illuministiche che hanno razionalizzato le mitologie aristoteliche sembrano trionfare nel pianeta. In cambio del bene promesso per tutti, ciascuno dovrebbe delegare la libertà, la sovranità, l’indipendenza, fino a temere la speranza, l’avvenire, il sogno stesso, come scrive nel suo testo Harry Wu. Questa necessità della politica che imperversa nel pianeta s’incarna ancora nei laogai cinesi e nelle carceri cubane, come testimonia Armando Valladares. Si prefigura nell’islamismo politico, che risulta, nelle testimonianze di Hamid Sadr, Ahmed Rafat e Bat Ye’Or, un grave pericolo contro Israele e l’Occidente. È ritornata nell’oligarchia della Russia di Putin che minaccia il pianeta e elimina il dissenso. È avallata dalle burocrazie del Parlamento europeo e dal terzomondismo dell’ONU. Non si tratta di scontri di religioni o di civiltà, bensì dell’utilizzo delle massime delle religioni e delle esigenze della civiltà a fini politici, a dimostrare che la politica ha i suoi fini che giustificherebbero i mezzi, idea a torto attribuita a Machiavelli.

Questa negazione della politica che è la politica presente, rappresentata da qualcuno, ha i suoi fini, che sono il controllo e la gestione sia dell’individuo e della sua irriducibilità, sia dell’Altro e della sua ragione. Cioè la loro eliminazione, proprio perché incontrollabili e ingestibili. L’irriducibilità dell’individuo è la giustizia, e la ragione dell’Altro trae con sé il diritto. E l’intoglibilità dell’individuo e dell’Altro esigono un’altra politica, non presente, non necessaria: la politica del tempo, dell’Altro, dell’ospite. Un ospite che non aspetta partecipazione, condivisione, amore, ma una politica del taglio non spaziale, della divisione che non fraziona, dell’odio che non parteggia. Politica che si qualifica nel contingente e non nella necessità ideale, proprio perché è temporale, non relazionale e non sociale. È secondo l’occorrenza, non secondo la possibilità, per questo esige la differenza e la varietà, non l’indifferenza e la variabilità, in cui occorre che tutto cambi perché tutto resti uguale.

Il contingente in cui esiste quest’altra politica, la politica del tempo, del fare nella parola, non è aristotelico, non partecipa cioè al quadrato logico delle modalità che inscrive in una proporzione il possibile, l’impossibile, il necessario e il contingente. Il contingente in cui si staglia il tempo non entra nei contrari e nei contraddittori, procede dalla contraddizione originaria, esige la funzione di Altro che non si relativizza e non si dialetticizza, salvo essere escluso, per essere rappresentabile negli altri, nei diversi. Contingente significa che qualcosa avviene e qualcosa diviene, scrive Armando Verdiglione. Contingente: l’avvenire e il divenire sono istanze temporali, non relazionali. Contingente: non il tempo della politica ma la politica del tempo, non il tempo della città, ma la città del tempo, del fare, dell’Altro, dell’ospite, dell’odio intransitivo e inconiugabile. Senza l’apertura e senza l’ospite, la politica fa senz’Altro: di qui la sua necessità finalistica, di qui la sua intolleranza. Ma anche la sua fine, con lo sterminio che ne consegue.

Da molte parti si teme che la politica abbia abdicato alla finanza globalizzata, e effettivamente la politica del tempo è essenziale perché la finanza non spadroneggi nel pianeta. Ma non perché la politica debba opporre alla finanza l’economia, che si farebbe economia politica, il principio della ragione sufficiente, del minimo male necessario. È il contingente, non il sufficiente, a impedire che la finanza si mentalizzi, si algebrizzi, si universalizzi. Solo se la politica è intoglibile, il dispositivo finanziario conclude alla scrittura, non alla fine. E l’impresa, con il suo rischio e la sua scommessa, offre una base pragmatica imprescindibile alla politica, come indicano gli interventi al Forum internazionale La politica dell’impresa, tenutosi nella sede di Confindustria Modena (14 marzo 2008) e pubblicati in questo numero.

Il governo della finanza senza la politica del tempo è il governo ideale. Che la fine regni sulle cose, che le cose siano finite risulta indispensabile per Aristotele perché possano essere pensate, padroneggiate, governate. Un governo sulle cose, sul tempo, sulla città è un governo perfetto, un governo necropolitano. Per questo Armando Verdiglione scrive che “quello che il discorso occidentale definisce il buon governo è il governo delle Parche”.

Ma, già con Niccolò Machiavelli, la politica non mira al governo sul tempo, sull’Altro, sulla città: “di cosa nasce cosa, e il tempo la governa”. Parla di governo del tempo, non sul tempo, dunque di governo della città, non sulla città. Come il tempo cifra, come la città si rivolge alla cifra: ecco il governo che non ha bisogno della paura.