La Città del Secondo Rinascimento

Numero 28 - La politica del tempo

Luciano Passoni
ingegnere, amministratore di SIR, Modena

LA POLITICA DELL'IMPRESA

Nell’ultimo decennio gli scenari economici e industriali sono notevolmente mutati, a causa dell’avvento della globalizzazione e dell’ingresso nel mercato mondiale dei paesi emergenti, la cui produzione ha progressivamente incrinato le certezze delle imprese, non solo nel nostro paese, ma in tutto il vecchio continente. Probabilmente, l’Italia, ormai da decenni orientata al contoterzismo, ha subito in misura più drammatica il confronto con le realtà del sud-est asiatico, confronto incentrato su una concorrenza in un certo qual modo sleale. I presupposti in cui si trova a operare l’industria delle nazioni emergenti sono infatti ben diversi da quelli di un paese impigrito dal proprio benessere: mano d’opera a costo infinitamente più basso e nel contempo più motivata e interessata al buon rendimento dell’impresa, assenza quasi totale di normative di produzione e di vincoli riguardanti la sicurezza sul lavoro, burocrazia ridotta ai minimi termini, appoggio del governo all’imprenditoria, sia in termini di tassazione ridotta che di incentivi allo sviluppo.

L’industria del mondo occidentale si trova ormai dinnanzi a una scelta obbligata: quella di riconsiderare la propria politica d’impresa da un punto di vista prettamente strategico-filosofico, al fine non solo di sopravvivere, ma di assicurarsi un domani rigoglioso. Perché è proprio questo il punto: sino a quando continueremo a combattere solamente per la sopravvivenza non apporteremo vero valore aggiunto al nostro modo di fare impresa e non creeremo qualcosa in grado di assicurare la nostra stessa esistenza economica. In sostanza, dovremo smettere di trascinarci stancamente giorno dopo giorno e invece guardare al domani con occhi diversi.

Si può fare? Certo, a patto di utilizzare un ingrediente primario e fondamentale: il rinnovamento. Continuo e globale, a tutti i livelli aziendali, nel breve, medio e lungo periodo, senza soluzione di continuità. Il rinnovamento dovrà essere applicato a prodotti e processi, a modi e metodi, in tutte le attività dell’impresa, dalla produzione al marketing, dalla gestione alla ricerca. Nello stesso tempo, l’imprenditore moderno dovrà fare tesoro delle proprie origini, di quel luogo fisico e metafisico in cui la sua attività è nata e cresciuta: l’esperienza del passato non dovrà essere dimenticata o vanificata, altrimenti la memoria delle nostre radici industriali e del nostro originalissimo modus operandi andrà irrimediabilmente perduta. I fasti del passato e del boom economico serviranno per rinverdire il futuro, rivalutando la nostra storia, la nostra tradizione industriale e organizzativa, quelle caratteristiche di stile, fantasia, flessibilità e buon gusto che hanno un tempo reso grande l’Italia nel mondo.

Partendo da questi presupposti, si renderà necessario un rilancio dei settori ricerca e sviluppo, mai avvenuto, malgrado le belle parole spese nei convegni, per creare nuovi prodotti e tecnologie, apportando nuova linfa al Made in Italy, ai nostri marchi più prestigiosi. Ciascun imprenditore dovrà scuotersi, accettare la sfida, fotografare la propria impresa e il proprio prodotto e, partendo da questo fermo immagine, dare inizio a un processo di rinnovamento volto alla razionalizzazione e al miglioramento del servizio. In questa costante proiezione verso il domani, la ricerca e l’innovazione divengono non più strumenti e mezzi fini a se stessi, ma compongono invece lo zoccolo di base della produzione del futuro.

È importante comprendere come una nuova vitalità industriale passi attraverso la fornitura di un servizio “a cinque stelle” in tutti i comparti, in ogni singola azione del nostro intraprendere: dalla qualità estetica all’assistenza, dalla professionalità alla disponibilità. Ogni minimo particolare, anche quello più banale, dell’attività aziendale dovrà essere volto all’ottenimento dell’eccellenza, dalla catena produttiva al modo in cui un operatore risponde al telefono o allo stile con cui una segretaria serve un drink al cliente. Solo così potremo divenire creatori di nuovi stimoli, oggi sconosciuti al mercato, che i paesi o le aziende concorrenti non saranno in grado di replicare con facilità.

Un buon servizio passa attraverso la riscoperta, nelle imprese private come in quelle pubbliche, del concetto della perfezione, del “lavoro a regola d’arte”, della cura maniacale di ogni singolo dettaglio. L’estetica, l’esclusività e la bellezza rappresentano sempre più gli ingredienti fondamentali del prodotto, accanto a funzionalità e qualità, anche nei campi manifatturieri tendenzialmente più “freddi”. Anche perché l’evoluzione del gusto, oggi riscontrabile in quasi tutti gli ambiti, dall’abbigliamento all’arredamento, dal cibo al vino, si muove in modo paritetico con l’innalzamento globale della qualità, sia essa della vita o dell’intero sistema. Il primo impatto dei nostri sensi con un prodotto è esclusivamente di tipo estetico e visivo e la scelta, a parità di prezzo, ricadrà sempre su quello più affascinante esteticamente. Poiché ai giorni nostri il cliente è sempre più esigente e gode di un vasto range di possibilità, risulta vincente chi è in grado di offrire un prodotto eccellente sotto tutti gli aspetti, unito a un servizio professionale e a un approccio serio, capace e puntuale.

Va inoltre ricordato che, nel mondo delle soluzioni e delle idee, un prodotto bello è sempre anche funzionale, e uno funzionale è sicuramente bello. Perché? Perché per ottenere un buon stile occorre uno studio accurato, minuzioso e meticoloso: occorre la necessaria ingegnerizzazione. Pensate alle macchine tedesche: sono affidabili, robuste e funzionali, sono costruite con i migliori materiali e con estrema cura; ma allo stesso tempo sono belle, molto belle: queste sono le caratteristiche intrinseche di un prodotto che non conosce crisi e ricadute, di un prodotto in grado di guidare l’industria verso la vittoria economica, in un mercato sempre più difficile ed esigente. Sono certo che siamo e saremo in grado di realizzare manufatti di questo tipo, dove l’estetica si coniuga con la sobrietà, la funzionalità con l’affidabilità, perché noi italiani non siamo secondi a nessuno in quanto a stile e buon gusto.

L’azienda del futuro dovrà poi godere di una spiccata riconoscibilità: in ogni momento il manufatto, di qualunque natura esso sia, dovrà essere visivamente riconducibile alla casa che lo ha realizzato. La certezza di acquistare il meglio, la consapevolezza della stabilità dell’azienda costruttrice anche in un lontano futuro, la sicurezza derivante da un service aziendale in grado di prendersi cura di ogni problema nel tempo sono parametri fondamentali per assicurare la fedeltà di un cliente a un marchio.

Di conseguenza, un’azienda che si pone sul mercato con tali premesse non temerà mai la globalizzazione e la concorrenza, a patto che sia sempre caratterizzata da un elevato dinamismo ed efficienza. Per avere successo, dobbiamo dimenticare la parola soddisfazione, dobbiamo cancellarla dal vocabolario: mai sentirsi soddisfatti delle conquiste di ieri o di oggi. Occorre muoversi non dentro ma oltre il mercato, immaginando continuamente nuovi scenari, avventurandosi nell’ignoto, anche quando il vantaggio sulla concorrenza è notevole e in apparenza si sarebbe portati a tentare di sopravvivere alcuni anni senza investire. L’imprenditore deve possedere le caratteristiche di un combattente, capace di ribaltare a suo favore le congiunture sfavorevoli utilizzando strategie originali, intelligenza e fantasia: questa “guerra” chiamata concorrenza si può vincere solo godendo di una mossa di vantaggio nei confronti dell’avversario.

Nel suo piccolo, SIR ha sempre cercato di crescere basandosi su tali strategie, che si sono rivelate vincenti nel lungo periodo: se osserviamo il primo robot studiato e realizzato dalla nostra azienda, balza subito agli occhi lo sforzo enorme profuso dall’ingegneria meccanica per conferire al prodotto un’estetica pulita e affascinante. Io stesso, che sono il fondatore di SIR, sono per mia natura perennemente insoddisfatto di ciò che è stato realizzato e rifuggo quotidianamente dalle strategie conservative, dalle persone che si adagiano sugli allori e affermano che “la macchina vincente non si cambia”. Se un’applicazione è sempre stata realizzata in un determinato modo, non significa che non esistano soluzioni migliori. Anzi, una tecnologia consolidata dovrebbe spingerci a ricercare con ancora più enfasi un’alternativa plausibile, anche se questo significa intraprendere un cammino verso un ignoto apparente, che quasi sempre rivela comunque piacevoli sorprese. Il “fare tanto per fare” in SIR non è accettato: si deve fare bene, anzi, benissimo. Si tratta di un modo di agire, come affermavo precedentemente, che ci ha portato bene: siamo cresciuti anche nei momenti più critici dell’economia e, aspetto ancora più importante, possiamo oggi godere di un parco clienti sufficientemente soddisfatti e affezionati.

Non ricadiamo però nell’errore di pensare che tali strategie siano applicabili solamente alla grande industria: possono essere utilizzate con successo anche nella piccola e media impresa. Non credo che il nostro futuro, in particolar modo quello del distretto modenese, debba per forza passare attraverso l’accorpamento delle aziende. Oggi nei convegni non si parla d’altro, sembra quasi che i grandi gruppi e le multinazionali siano la panacea di tutti i mali. Credo che questa idea sia completamente sbagliata: questi bisonti sono infatti poco reattivi, quasi ingessati, tendono a perdere aggressività e fantasia, appiattendosi verso il basso. L’esperienza del distretto costituito da tante piccole e medie industrie non si è ancora esaurita: più che accorpare, occorre trasformare culturalmente queste realtà, affinché possano spostare il loro baricentro dal presente al futuro. Credetemi, non serve una divisione di ricerca e sviluppo costituita da settecento persone per rimanere sul mercato: si può puntare all’eccellenza anche con aziende di poche decine di persone, e SIR lo dimostra. Non dimentichiamo inoltre che le multinazionali sono generalmente caratterizzate da scarsa lungimiranza, costituendo quindi esattamente l’opposto di quello che stiamo cercando di costruire e ottenere. Perché? Perché pensano solamente al presente, al profitto immediato, all’ultima riga del bilancio. Ma un’impresa non è solo una pagina di numeri: un’impresa è soprattutto costituita dalle idee e dai progetti, dalla forza culturale e strategica degli uomini che la dirigono e le danno anima. È quindi giunto il tempo di dare una maggiore importanza al valore intrinseco, più che al valore generato: perché il secondo è la naturale conseguenza del primo, si tratta di una mera questione di tempo. Ecco perché penso che le multinazionali abbiano un approccio ribaltato, dal punto di vista della causa/effetto, del modo di fare impresa: ecco perché penso che tale approccio sia sbagliato e non possa che portare, nel lungo termine, a risultati negativi, soprattutto in un paese come il nostro.

Se è vero che l’imprenditore di oggi non deve solo realizzare, ma deve prima di tutto crescere culturalmente, è altrettanto basilare che tale crescita venga trasmessa a tutti i livelli aziendali: lo scuotimento e il dinamismo insiti nell’applicazione del servizio “a cinque stelle” dovranno diffondersi dalla proprietà ai responsabili, dai responsabili alle maestranze. Tutti dovranno acquisire la consapevolezza e l’orgoglio di essere parte di un marchio e dovranno apportare il loro contributo, non importa in quale modo e misura, per la realizzazione di una filosofia aziendale volta al superlativo.

È chiaro che dirigenti e maestranze dovranno godere della necessaria responsabilizzazione, estirpando quel vizio tutto italiano del controllore che controlla il controllore preposto a controllare il lavoratore: la valorizzazione dell’individuo, dal manager all’ultimo operaio, sarà un valore basilare su cui ricostruire il nostro tessuto industriale, al fine di ricreare quell’amore per la propria azienda, quel senso di appartenenza che in questi decenni è andato irrimediabilmente perduto.

Dovrà altresì diffondersi una nuova coscienza del lavoro, non più visto come una punizione divina, ma come uno strumento di elevazione, di realizzazione, di miglioramento personale e sociale. I falsi predicatori che, a partire dalla fine degli anni sessanta, hanno indottrinato sia il lavoratore dipendente che l’imprenditore, convincendoli che il lavoro fosse una maledizione a cui è possibile sfuggire, andranno emarginati dalla società del futuro, così come andranno emarginati tutti coloro che ostacolano il progresso e il crescere della nostra Italia: è assolutamente necessario, per ottenere una maggiore competitività, eliminare la decennale contrapposizione tra dipendente e impresa.

Se oggi le nostre realtà aziendali sono poco competitive e soffrono più di altre la concorrenza delle nuove realtà economiche, lo dobbiamo in parte a imprenditori poco lungimiranti e con visioni strategiche volte all’ottenimento di un utile sicuro nel brevissimo periodo, in parte a lavoratori dipendenti svogliati e demotivati. A questi si aggiungono i sindacati, che non sono mai stati in grado di promuovere l’unica forma possibile di giustizia aziendale, la meritocrazia, ma hanno invece protetto e difeso fannulloni e nullafacenti. Dello stato attuale della nostra economia dovremo ringraziare anche ambientalisti, ecologisti e politici incompetenti, che hanno ostacolato le opere pubbliche di interesse strategico per la circolazione delle merci e delle persone. Si pensi a tutte le scelte sbagliate degli ultimi decenni, anche a livello energetico, prima fra tutte la rinuncia al nucleare, in un paese povero di risorse e materie prime.

Per risanare la situazione, la classe politica tutta, destra e sinistra, e l’intero sistema paese devono correre in aiuto della nostra industria: occorre eliminare regole, tassazioni e burocrazie che riducono la competitività. Questo punto è di vitale importanza, ma la nostra classe dirigente sembra non averlo ancora capito: l’impresa è costantemente ignorata, anzi ogni giorno il governo, di qualunque schieramento sia costituito, pare inventarsi un nuovo metodo per porre i bastoni fra le ruote all’imprenditoria. Non si è ancora capito che, senza industria, senza occupazione, senza stipendi, il bel giochino del benessere smetterà ben presto di funzionare. Noi imprenditori lo sappiamo, ma è ora che se ne rendano conto anche politici, magistrati, sindacati, dipendenti e cittadini. È giunto il tempo di vedere l’impresa come un bene di inestimabile valore, in grado di creare ricchezza per tutti noi, come un patrimonio da curare e da difendere: anche perché essere imprenditori diviene ogni giorno più difficile e ci saranno sempre meno persone disposte a farlo, mettendo a rischio il proprio capitale. La nostra società è caratterizzata da un notevole numero di finanzieri e banchieri, che spostano fiumi di denaro sottraendoli al risparmiatore, arricchendosi o facendo arricchire a dismisura. Questo denaro però non è stato guadagnato da loro: il denaro viene invece generato dalle attività, in una parola viene creato dal “fare”. Per tale motivo, l’economia e la politica non possono fare a meno dell’industria produttiva: sarà quindi necessario attuare delle strategie politiche a lungo termine al fine di incentivare e favorire lo sviluppo industriale, premiando la professionalità, detassando i premi di rendimento e gli utili reinvestiti in ricerca e sviluppo. Si dovranno instaurare nuovi meccanismi di protezione, al fine di stroncare la concorrenza sleale, bloccando l’importazione dei prodotti che non rispettano appieno le normative europee, tutelando marchi e brevetti, favorendo le esportazioni dei manufatti nazionali grazie all’introduzione di incentivi e sgravi fiscali, dando nuova linfa alla ricerca e punendo severamente chi ottiene agevolazioni e contributi allo sviluppo utilizzandoli in modo non completamente trasparente e senza le corrette motivazioni. Allo stesso modo, il sistema bancario dovrà favorire la crescita, introducendo nuovi concetti di valore, individuando gli imprenditori seri e competenti, con progetti validi e innovativi, al fine di aiutarli economicamente nello sviluppo.

Tutto questo va fatto presto, molto presto: occorre ricreare immediatamente i presupposti affinché il nostro paese possa ancora fare parte della schiera delle nazioni più industrializzate, affinché la nostra Italia abbia un’ulteriore possibilità di rimettersi in gioco, o almeno di provarci.

Ho l’impressione che molti imprenditori osservino con distacco questo nostro tramonto, quasi come se loro non vi fossero coinvolti, quasi come se la sfida fosse perduta in partenza e non valesse la pena nemmeno di combattere: questo fatalismo mi fa molta paura. È una rassegnazione che viene da lontano, perché da troppo tempo l’imprenditore che produce, non quello che si limita a manipolare denaro altrui, è stato lasciato solo e usato solamente per ottenere soldi, soldi, e ancora soldi, grazie a regole e tassazioni.

Ma io credo che potremo ancora vincere la battaglia della globalizzazione, della concorrenza, del mantenimento del benessere, a patto che tutto il paese partecipi a questo rinnovamento, dalla famiglia e dalle forze sociali alla politica e al sistema nella sua globalità. Non abbiamo scelta, perché se non lo faremo diverremo sudditi delle economie emergenti, perdendo il nostro tanto amato benessere e la nostra identità. L’Europa, e in particolare l’Italia, con la sua storia, la sua cultura e la sua fantasia, non può permettersi di perdere questa battaglia: non può e non deve. Ma intanto, poiché questo movimento deve prendere le sue mosse dal basso, cominciamo noi stessi a impegnarci nel nostro quotidiano, come individui e come imprenditori. Signori, è tempo di rimboccarci le maniche e di darci una mossa.