La Città del Secondo Rinascimento

Numero 29 - La scrittura del pianeta

Alessandro Atti
cifrematico, scrittore, traduttore

LE PAROLE NON SIGNIFICANO

Il libro di Erik Battiston, La città moderna (Spirali), sfata luoghi comuni a proposito della parola e lo fa dimostrando che la cifrematica non è astrusa, ma, anzi, è ben vicina alla “realtà”. Per la cifrematica, le parole non significano e da sempre i poeti tentano di sottrarre alle parole il significato, comunemente attribuito. E proprio questo è altamente cifrematico.

La morte e il potere

Battiston cita Dino Campana: “Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte”. Primi del novecento: Campana avverte che incomincia una imprevista trasformazione, il secolo è travolto, nei suoi valori, dalla forza e dalla produttività di D’Annunzio. E Campana introduce qualche novità: capiamo, con questo verso, che non crede addirittura al significato comune della morte. Il potere assoluto della morte non è più terroristico. E se oggi leggiamo che, per molti scienziati, la morte si può quanto meno rimandare, la morte, invece, ai tempi di Campana, non aveva perso nulla del suo potere. Il suo potere non è più assoluto: i poeti lo avevano avvertito e anche questo potere, che era l’unica sicurezza rimasta agli umani, incomincia a vacillare.

Leggiamo Battiston: “Il potere nel suo esercizio pratica la vendetta”. O, anche, “Il potere umano instaura un regime di violenza dolce, purificatrice”. Il “potere” è una parola fra le più pregne, pare, di significato, sicché ben poche parole sono state demonizzate al pari del “potere”. Nel libro che stiamo leggendo, aleggia ovunque la catena di montaggio (e il libro stesso è come il frutto di un’ingegnosa catena di montaggio) e, così, ne cogliamo lo spunto, per notare che il potere è stato demonizzato, appunto, da quando è stata introdotta nel cinema la catena di montaggio. Il fordismo la introdusse già nel 1917, ma la vera demonizzazione partì con il film di Chaplin, Tempi moderni, del 1936, dove il protagonista è preso fra le ruote della mostruosa macchina. Da allora, la demonizzazione non si è più arrestata e è giunta, infine, anche in Italia con il “Boom economico”: ha investito la fabbrica, perfino la città e, alla fine, è stato demonizzato il potere stesso, la parola “potere”. E dove stava, ormai, il potere, quando Pasolini era ormai preda del fantasma di una nous, ignota e inconoscibile agli umani e sovrastante ogni altro potere?

Ebbene, poi, è stato demonizzato anche il dovere. Non c’era e non c’è più nessun dovere. Così pure, è stato demonizzato il sapere e, poi, il volere: nessuno può volere più niente. Oggi, siamo alla “fine” dei valori, eppure questa fine non c’è. C’è, invece, il riconoscimento (inammissibile tanto quanto cifrematico) che le parole non significano: e lo capiamo se leggiamo appunto La città moderna. Non c’è più la credenza, cara al discorso schizofrenico che le parole siano come le cose: “dico uomo” e ecco l’uomo, “dico donna” e ecco la donna.

La catena di montaggio

E dico “catena di montaggio”: La città moderna è, come già detto, il prodotto di una catena di montaggio molto raffinata, costruito come è, quasi pezzo su pezzo, nella lettura di ciascuna sua pagina, fatta ciascun sabato in un gruppo di lettura. La catena di montaggio è una serie di sforzi combinati, coordinati, congegnati, a tempo: anche dal libro, emerge il fantasma macchina. È il mostro che schiavizza gli operai, con le sue ruote inumane? È la macchina operatrice? Ci sono dunque gli operai e anche gli operai sono stati, alternativamente, santificati e demonizzati, denigrati e degradati, e sono anch’essi un’ulteriore testimonianza dell’assenza di significato delle parole. Oggi, infatti, nemmeno la parola “operaio” significa: l’operaio era la parola della cui significazione nessuno poteva dubitare, eppure l’operaio non c’è più.

Infine, nel libro di Battiston, tante donne: tante. Quante donne! Ma possiamo dire che le donne, almeno loro, significhino? Il protagonista si trova in un rapporto “misterioso” con ciascuna di esse, sicché mi sono venute in mente Le memorie di Casanova. Leggendo Casanova, viene come confermato che le parole non significano: le sue stesse avventure sembrano ben più racconti dell’irreale che “fatti”. Casanova, forse, non era quell’instancabile “macchina” del sesso, come presume Fellini, che costruisce il suo film del 1976 attorno a una sorta di gentleman “british” freddo gelato, dotato di una padronanza assoluta, che funziona ossessivo come la macchina della “catena”. E, così, leggendo il libro di Battiston, mi sono detto: “Non sarà che, secondo Fellini, è Casanova quello che ha inventato la catena di montaggio?”. Non viene forse sfidato dal principe romano, che gli propone la gara con lo stalliere, famosissimo perché “cavalcava” più donne lui di qualsiasi altro? Era il mito della macchina del sesso, mentre Casanova, forse, nella realtà, era inadeguato a quello che gli attribuisce Fellini. E, invece, il film di Fellini, letto con il libro di Battiston, mi ha convinto (questo sì!) che Casanova ha proprio inventato la… catena di montaggio! Sta qui il genio del poeta Fellini, che ha capito questa cosa di Casanova: in Casanova, la catena di montaggio non era ancora demonizzata e con La città moderna la catena di montaggio torna a non essere più demonizzata. E, ormai, non sono più demonizzati né la fabbrica né i sindacati.