Numero 29 - La scrittura del pianeta
Luigi De Marchi
psicologo, politologo, saggista
IL NUOVO PENSIERO FORTE
Enzo Spaltro mi ha domandato perché in quegli anni dicevo che bisogna guardare con sospetto a Marcuse e a Fromm e invece con grande rispetto a Reich. Innanzitutto perché chi sostiene posizioni scomode, di per se stesso va guardato con più rispetto. Si dà il caso, poi, che la posizione scomoda di Reich investisse la sessualità. Come del resto avevo fatto io nella mia prima opera, Sesso e civiltà, ancora prima di conoscerlo, Wilhelm Reich tentava, per la prima volta nella storia della psicologia, un collegamento tra il regime sessuale e i comportamenti delle dirigenze politiche e religiose di quella società. Reich collegò la sessuofobia alla piccola borghesia secondo i canoni classici del marxismo. Sono stato certamente un reichiano appassionato, però già in quella mia prima opera sconfinavo oltre l’analisi del fascismo. Il collegamento, infatti, tra la repressione della sessualità da una parte e il dogmatismo ideologico e la violenza politica dall’altra era perfettamente associabile non solo al fascismo ma anche al comunismo e al dogmatismo religioso di stampo cristiano e islamico. Reich, come tanti uomini del suo tempo, era stato abbagliato dalla grande rivoluzione d’ottobre, ma non aveva capito che la sua rivoluzione libertaria era intrinsecamente incompatibile con un movimento come quello comunista, che era per sua natura dogmatico e che non si faceva scrupolo di sterminare non solo i suoi oppositori di destra, ma anche quelli di sinistra: nei regimi comunisti, infatti, i socialisti sono stati impiccati e fucilati a migliaia.
Inoltre, in Sesso e civiltà e nelle altre mie opere, ho dimostrato che il nodo della sessuofobia poteva spiegare non solo il comunismo o il fascismo, ma anche il dogmatismo religioso. Da lì è nata questa mia Psicologia Politica Liberale, che è diventata uno strumento, infinitamente più valido di quello che viene insegnato nelle università, per capire i grandi movimenti sociali e politici del nostro tempo. La mia psicopolitica dice che le ideologie sono maschere e le economie sono macchine e che quello che veramente conta nella dinamica storica e sociale è la struttura caratteriale, la mentalità degli uomini che si nascondono dietro le maschere oppure che guidano le macchine. Nelle dirigenze comuniste e fasciste troviamo la stessa arroganza, la stessa prepotenza, la stessa tendenza a sopprimere gli avversari politici, la stessa convinzione di avere la verità in tasca.
Altro esempio di come la Psicologia Politica Liberale può capire il mondo di oggi è quello a cui accennava Spaltro: la madre di tutte le tragedie, cioè la bomba demografica. Nessuno ne parla, la questione demografica è rimossa perché c’è di mezzo la procreazione e con essa la sessualità. Sono i tabù sessuali il fenomeno tipicamente psicologico che ha imposto alle ideologie più diverse di negare la questione demografica, tant’è vero che le ideologie più diverse e antagoniste (da quella islamica a quelle cattolica, fascista, comunista e anche i laici all’acqua di rosa che vanno di moda oggi) sono tutte stranamente d’accordo nell’ignorare la questione demografica. Nemici a parole in tutti gli altri campi, su questo concordano, perché alla base c’è la stessa incapacità di affrontare la questione della sessualità e di porla al centro della dinamica sociale.
Accennava Spaltro al fatto che ho avuto una giovinezza reichiana e una maturità esistenziale: non a caso ho definito la mia Psicologia Umanistica Esistenziale. La psicologia umanistica è stata fondata quarant’anni fa in America, ma ciò che mancava a quella psicologia era la dimensione esistenziale. Essa riteneva la nevrosi, il malessere, la sofferenza psichica come il risultato del conflitto tra natura e cultura. La novità che ho portato nella psicologia è che, in seguito alla morte di una donna che ho amato immensamente, ho dovuto guardare in quel buco nero dove nessuno ama guardare e mi sono accorto che i capiscuola lo avevano accuratamente schivato.
Freud fu terrorizzato tutta la sua vita dalla paura di morire. Quando salutava gli amici diceva: “Chissà se ci rivedremo”. Se sulla nave gli davano la cabina numero 62, si convinceva che sarebbe morto a 62 anni. Eppure, nelle sue teorie la morte non esiste. Esiste Thanatos, ma non esiste l’angoscia della morte. Ha ribaltato la questione, affermando che tutti desideriamo inconsciamente morire, siamo carichi di una spinta all’autodistruzione. Alfred Adler aveva studiato medicina per difendersi dall’angoscia di morte, ma ne tace nelle sue opere; Jung non scrive una sola riga al riguardo nel suo Trattato delle psicosi e delle nevrosi. Lo stesso Reich non ha mai parlato dell’angoscia di morte.
Penso che sia un processo di colossale rimozione. Eppure, ciò che caratterizza noi esseri umani è che siamo gli unici esseri viventi consapevoli del nostro destino di morte. La zebra pascola tranquillamente accanto alla carcassa della compagna sbranata pochi minuti prima dal leone. Il leone è sazio, la morte è passata e l’erba è piacevole. L’uomo e la donna, invece, stanno mesi e anni a disperarsi. Ci sono rituali in cui il superstite deve ungersi col liquame del cadavere, rituale colpevolizzante che autorizza il defunto a una vita felice nell’aldilà.
Noi esseri umani siamo grandi inventori di colpe. Tutto il racconto del Genesi sembra un tentativo di spiegare la morte come punizione. Adamo ed Eva vivevano felici nel paradiso terrestre ed erano immortali, ma hanno violato il divieto divino, mangiando il frutto proibito. Questo ha sicuramente una componente sessuale infatti la Bibbia racconta che, appena lo mangiarono, si coprirono i genitali ma anche una componente cognitiva, perché era l’Albero della Conoscenza. Con la parabola del Genesi i profeti cercarono dunque di spiegare ai loro contemporanei che la morte era una punizione divina.
Molto si potrebbe spiegare se eliminassimo l’ultimo tabù della psicologia. Il primo che ha spostato il baricentro del malessere psichico umano dal conflitto tra Natura e Cultura a un evento pre-culturale è stato Otto Rank, a cui ho dedicato un libro quindici anni fa intitolato, non a caso, Otto Rank, pioniere misconosciuto.
Però, la differenza tra me e Rank sta nel fatto che lui spiega tutto con l’ipotesi del trauma della nascita. Ma, se fosse vera la sua teoria, tutto il vivente sarebbe nevrotico, perché tutto il vivente ha il trauma della nascita. Ciò che è specifico dell’uomo è, invece, la nascita della coscienza, la coscienza del nostro destino di morte. Questa è la radice della nostra sofferenza.
Ricordo una bella intervista di Musatti, ormai novantaduenne, a cui una giornalista RAI chiedeva quanti pazienti avesse guarito. Con molto umorismo lui rispose: “Forse uno”. E poi aggiunse queste parole sagge: “La psicanalisi non risolve i problemi dei pazienti, ma li aiuta a convivere meglio con i loro problemi”.
Sono parole che valgono anche per il problema della morte, che non si può risolvere, ma con il quale si può convivere meglio.