Numero 29 - La scrittura del pianeta
Ahmed Rafat
giornalista, scrittore, traduttore, membro fondatore dell'Associazione Iniziativa per la Libertà d'Espressione in Iran
L'ISLAM, LA RELIGIONE, LA POLITICA
È possibile parlare di politica in paesi in cui nella vita pubblica è così presente la religione, in particolare quella musulmana?
Nei paesi islamici la politica non è separata dalla fede, camminano sullo stesso binario come se fossero un’unica cosa. L’islam fin dalla sua nascita e dai suoi primi scritti si è occupato non solo dell’anima ma anche della vita quotidiana dei fedeli: separare le due sfere, pertanto, significa spezzare una tradizione secolare, un modo di pensare ben radicato. Questo ha fatto sì che in alcuni periodi storici, come sta avvenendo negli ultimi anni in molti paesi, ci sia un islam molto politico e intransigente che si fa stato. Ciò rende molto difficile il dialogo con i paesi e le culture in cui invece c’è una netta separazione tra la fede e la politica, tra lo stato e la chiesa. Ci si trova a discutere allo stesso tavolo tra chi da un lato crede che le leggi siano ideate e modificabili dall’uomo, mentre dall’altro sono seduti governanti islamici che non hanno potere di cambiare le leggi, considerate divine e dettate da Dio. In questo modo la parola dell’uomo non può mai trionfare su quella divina, già scritta, e il dialogo con chi non vede la separazione tra stato e fede giunge ben presto a un vicolo cieco.
Il limite per i politici islamici è dato da questa forza del dogma religioso o è imposto dalla retorica di una casta di religiosi che detiene specifici interessi?
Credo che molti politici si nascondano dietro la retorica della fede, come i religiosi spesso utilizzano i politici per portare avanti certe regole e interessi. Amadinejad, per esempio, è un militare, è stato anche professore universitario, ma non è mai stato un religioso. Porta avanti la parola dei religiosi, ma anche alcuni interessi economici. È un cocktail molto pericoloso. La vicinanza tra religione e politica rende tutto più esplosivo e pericoloso.
Qual è la via per cui l’islam può trovare un’accezione di politica laica, che valorizzi il governo dei cittadini in modo non oppressivo ma inserito in una comunità internazionale?
Credo che attualmente l’islam stia vivendo il suo medioevo. Sono passati quattordici secoli dalla sua nascita e, se facciamo il confronto con la storia della Chiesa cattolica, esattamente sei secoli fa, anch’essa si trovava in una situazione simile. Ciò che manca alla religione musulmana è una riforma dal suo interno portata avanti dai suoi stessi teologi, senza la quale sarà difficile andare avanti. Dall’altra parte l’occidente sta compiendo un grosso errore, accettando ogni cosa in nome del relativismo culturale, mettendo in discussione anche quei valori che hanno caratterizzato il rinascimento e l’illuminismo. Cedere su questi argomenti non solo non aiuta l’oriente, ma potrebbe portare alla conseguenza che tra non molto l’occidente si senta di dover correre ai ripari di fronte a un oriente in una fase sempre più espansiva e aggressiva.
Allora lei non è d’accordo con coloro che pensano che occorra smussare gli angoli, non pretendere troppo dai governi islamici per evitare d’inasprire lo scontro?
No, perchè credo che questo atteggiamento stia solo rimandando lo scontro per un periodo molto breve. Oppure c’è il rischio che questo “smussamento” porti a rinunciare piano piano ai valori occidentali fino alla loro cancellazione. Basta pensare a quanto è avvenuto nell’ospedale di Firenze in cui si è accettato di effettuare la mutilazione delle donne a spese dell’Asl, cioè a spese dei contribuenti italiani. Rispetto altrui non significa cedere su valori per i quali molte persone hanno combattuto e dato la vita. Accettare che un cittadino proveniente da una cultura differente pratichi anche in Italia il matrimonio a tempo non significa andargli incontro. La tolleranza non deve andare a discapito dei diritti umani. Non devono permettersi compromessi sui diritti. Una donna nata in Italia e una nata in Somalia non devono avere diritti differenti soltanto perché hanno avuto la sfortuna di nascere in posti differenti. Accettarlo sarebbe andare contro la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e se incominciano a non applicarla più anche i governi occidentali significa legalizzare l’ingiustizia e l’ineguaglianza.
Diceva prima che l’islam per uscire dal proprio medioevo deve elaborare il confronto tra forze laiche e religiose. Ritiene che sia già incominciato questo processo o è ancora di là da venire?
Questo processo era già incominciato e procedeva a gran velocità. L’11 settembre ha cambiato tutto. In seguito ai fatti accaduti a New York l’occidente si è diviso in due. Una parte terrorizzata è diventata islamofobica e l’altra, sempre per paura, è diventata relativista e ha incominciato ad accettare qualsiasi cosa venga dall’islam. Questi due atteggiamenti hanno frenato e danneggiato enormemente il processo di secolarizzazione e di democratizzazione del mondo islamico.
Nei paesi islamici, in Iran in particolare, quali sono le forze che spingono verso il dialogo, prima di tutto all’interno e poi verso l’estero?
Diversi religiosi, ormai costretti a spogliarsi dall’abito perché considerati eretici e condannati al carcere, propongono una riforma interna. Una delle tesi più diffuse è quella di liberarsi da una pesante eredità dell’islam che risale a quattordici secoli fa. Esistono tre categorie di principi religiosi musulmani sanciti da vari libri. Nella prima ci sono i valori universali non legati al tempo e al luogo, che sono comuni a molte religioni, principi etici come “Non uccidere” o “Non rubare”. Un’altra categoria riguarda la tradizione religiosa, le preghiere, i canti. Pacchetti, come li ha chiamati uno studioso, che si custodiscono e si applicano per fede. Infine, ci sono le regole quotidiane: cosa mangiare, come vestirsi, i diritti di alcune categorie sociali e così via, che sono assolutamente obsolete. Non si può vivere e pensare come cento anni fa. Quest’ultima categoria di regole va lasciata al giudizio dell’uomo, perché decida secondo il tempo e il luogo in cui vive.