La Città del Secondo Rinascimento

Numero 24 - Il valore dell'impresa

Anna Spadafora
cifrematico, brainworker, direttore dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

IL BILANCIO DELL'AVVENIRE

La scommessa del forum internazionale Il valore dell’impresa è che ciascuno riesca a acquisire strumenti non solo per analizzare il valore di un’azienda, ma anche per giungervi, per giungere al valore intellettuale, oltre che economico e finanziario, il valore come ciò che resta delle cose che si fanno e della loro scrittura.

Questo forum sorge anche per indagare dove esistono e quali sono i dispositivi che giungono al valore, i dispositivi di valorizzazione, e in che modo il progetto e il programma dell’impresa sono progetto e programma di vita, anziché essere ispirati all’idea di salvezza. Il valore esige la salute, mentre un’azienda che punta alla salvezza è un’azienda che si ritiene malata e moribonda. Il processo di valorizzazione intellettuale oggi è indispensabile per quel salto di qualità imprescindibile per raggiungere risultati soddisfacenti sui mercati internazionali.

Ma non dobbiamo pensare che la vittoria sia lo scopo dell’impresa, l’istanza della vittoria è nell’incominciamento. Nessuna impresa può avviarsi senza l’istanza della vittoria, inaugurata dall’autorità con cui le cose incominciano. Tant’è che il marchio, il logo, il nome potrebbero essere indipendenti dall’azienda, mentre i prodotti di un’azienda, senza logo, perderebbero il valore che il marchio conferisce. Dunque, vince chi, procedendo dall’autorità di un nome che funziona, giunge al capitale, alla cifra, al prodotto estremo, al valore assoluto. Chi aspetta di avere il capitale per fare ha già perso, confonde il finanziario con l’economico e nega la materia a vantaggio della sostanza.

Quante e quali imprese oggi giungono al valore? Come sentiremo dalle testimonianze degli imprenditori che interverranno a questo forum, se si fossero basati solo sul capitale iniziale, non avrebbero compiuto un passo. Si sono sempre basati e continuano a basarsi invece sul bilancio dell’avvenire, dove il racconto precede il fare, anziché esserne il commento. Il fare non si può raccontare, sarebbe l’elenco dei fatti, di cui ancora una volta importerebbe la sostanza. Il racconto invece si fa di sogno e di dimenticanza, due ingredienti indispensabili all’infinito e all’avvenire. Ciascuna impresa che giunge al valore è un’impresa che vive di racconto, di sogno e di dimenticanza e ciascun giorno scrive il suo testo, con la sua lingua, la lingua propria di ciascuna impresa. Raccontando e narrando il bilancio dell’avvenire, nell’incontro con i clienti, i fornitori, i collaboratori, gli interlocutori finanziari, l’imprenditore instaura dispositivi per giungere al valore assoluto.

Eppure, c’è ancora chi reclama il valore dei fatti a scapito delle parole, salvo poi lamentare una vita piatta, conformista, dagli esiti prevedibili, in cui non accade nulla e tutto è già contemplato e contemplabile, comprese le catastrofi. La paura eretta a sistema fonda il discorso della morte, dove ciò che importa è la salvezza. Ma salvezza da che cosa? Ciò che si rappresenta come pericolo di morte, propria o della propria impresa, è la conseguenza della negazione della difficoltà della parola. Quante imprese si perdono per paura? Ma la paura fondamentale è la paura di affrontare la difficoltà della parola. E non ha torto chi avverte tale difficoltà: elaboriamo e troviamo qualcosa in virtù della difficoltà della parola. Nulla accade senza il fare della parola originaria, nessuna impresa, nessun viaggio, ma solo la circolarità, la vita sempre uguale. Per reazione alla parola, sorge l’idea di potere scegliere, come se ci fosse un’alternativa fra questa vita e l’altra vita, fra le parole e i fatti: i fatti, necessari per soddisfare i bisogni, e le parole, solo quando i bisogni sarebbero già stati soddisfatti? Noi pensiamo che questa sia un’alternativa naturale, ma non è così, basta leggere la Metafisica di Aristotele per rendersi conto di come questa alternativa – che poi è stata messa in discussione e sfatata da Leonardo da Vinci e dal rinascimento – sia la stessa che separava le arti liberali dalle arti meccaniche: “Se dunque gli uomini hanno cercato di filosofare per dissipare la loro ignoranza”, scriveva Aristotele, “è evidente che essi non coltivarono con tanto ardore questa scienza se non per conoscere le cose e non per trarne il benché minimo vantaggio materiale”, come se questo fosse un peccato. “Tutti i bisogni, o quasi, erano già soddisfatti riguardo alla comodità e persino ai piaceri della vita, quando sopravvenne il pensiero di questo genere di ricerca”. Con questa alternativa Aristotele condannava la parola alla semplice funzione contemplativa, mentre il fare era delegato agli schiavi, coloro che erano costretti dai bisogni materiali a vivere il lavoro come una maledizione. Ma perché nei nostri paesi, dove la schiavitù è stata debellata da tempo e il rinascimento ci ha insegnato che il lavoro manuale è lavoro intellettuale e non esiste la dicotomia tra chi pensa e chi fa, dovremmo ancora ripetere luoghi comuni nati oltre duemila anni fa, a opera di una comunità filosofico-religiosa che voleva salvaguardarsi dagli effetti imprevedibili della parola?

Allora, proprio per trovare altri modi per valorizzare l’arte, la cultura e la scienza di ciascuna impresa, mettiamo a frutto la ricerca di oltre trent’anni di cifrematica, la scienza della parola che diviene cifra, che diviene qualità, nonché la ricerca e l’esperienza di chi – filosofo, imprenditore, psicanalista, economista, brainworker, scienziato – dà testimonianza nell’incontro, dove la parola agisce. Le cose accadono nella parola e non c’è più da averne paura.