Numero 31 - La libertà, l'arte, l'impresa
Milo De Angelis
poeta, scrittore
PER VIVIANA NICODEMO
L’incontro
L’anno scorso, vedendo per la prima volta queste fotografie, ho subito sentito che si trattava di uno studio sul dolore. Un dolore che viene visitato nei suoi luoghi più impervi, un dolore estraneo a ogni effetto sentimentale. Più che comporre uno stato d’animo, irrompe nella luce, nella posizione dei corpi, negli spigoli dei muri. È un’energia inquieta che non entra mai in contatto con il patetico, non cerca la soluzione facile del viso triste o dell’espressione malinconica. Entra in contatto, semmai, con l’incompiuto.
L’incompiuto
Tutto il libro è attraversato dall’incompiuto. Nulla si compie o realizza il suo proposito, nulla raggiunge la meta verso cui era proteso: scale che non si possono salire o che non portano da nessuna parte (pagg. 75, 77, 87, 88, 89 e131); letti dove è impossibile prendere sonno (pagg. 26, 110 e111); corridoi che non finiscono o non collegano più le stanze (pag. 79); finestre che non si possono aprire né chiudere, persiane luminose e sbarrate (pag. 91). Tutto viene strappato alla sua funzione: non ha uso e non ha pace, non ha luogo. Ci sentiamo premere da ciò che non scorge più la sua via. Anzi, sembra che le immagini stesse siano questa pressione divenuta visibile.
Il posto di blocco
La figura che le governa è il posto di blocco. C’è una barriera, un’ostruzione, uno sbarramento, un invisibile posto di blocco che arresta il movimento dei corpi (pagg. 25, 49 e 82). Eppure questi corpi sono pieni di slancio. La loro non è una sofferenza depressa, ma tesa e vigile, persino sbigottita di fronte a questo improvviso divieto, che è anche un divieto di sosta: impedisce ai corpi di accettare, di calmarsi, di abitare il disastro (pagg. 34, 35 e 36). Sono corpi carichi di luce e di energia. Ma incarcerati.
L’internamento
Necessità dell’anatomia è infatti un libro carcerario. Con tutta un’epopea della reclusione. È un libro di muri, sbarre, corridoi. Le creature che abitano questi luoghi sembrano nate qui, sembrano non avere conosciuto un’altra vita. Il loro muoversi non ha scampo, assomiglia all’ora d’aria dei detenuti. Tutto deve avvenire qui, in queste stanze di concentramento, tra queste pareti, su questi pavimenti. Che a volte si aprono smisurati (pagg. 80 e 81), a volte sono inospitali, carichi di insidie e di allarmi (pagg. 35, 36 e 63). Anche i muri parlano la stessa lingua. Sono muri minacciosi (pagg. 34, 36, 60, 68, 69 e 84). Muri screpolati, feriti, disgregati, pieni di spigoli e rilievi, scrostamenti, bolle di cemento, sporgenze, fessure e fenditure. Questo libro è un poema dei pavimenti e dei muri. Un poema carcerario.
La nudità e l’assedio
I corpi che si aggirano in questo carcere sono corpi nudi. E ciò crea un contrasto ulteriore. Da una parte la nudità, archetipo senza stagioni. Dall’altra un tempo storico, novecentesco e milanese, un’era di capannoni industriali, depositi, spogliatoi, scantinati, tutto un hinterland del corpo che non raggiunge il proprio centro. Sono corpi nudi, nudi di donna. A volte sono incerti, barcollanti, appoggiati a un bastone (pag. 51), sostenuti da un filo (pagg. 124, 125 e 126) o da un chiodo (pag. 58), rannicchiati a terra e pensosi (pagg. 61, 97 e 113), abbandonati esanimi su una ringhiera (pag. 82). A volte invece sono corpi vigorosi, scattanti, colti nella loro tensione muscolare: schiene potenti, inarcate (pagg. 23 e 24), pronte al salto, al volo o al tuffo (pagg. 34, 35 e 39). Ma non è un vero salto, un vero volo o un vero tuffo. È una possibilità intravista e negata, è un’essenza impedita, un affacciarsi promettente sull’atto che non si compie, ancora una volta. Corpi giovani che non si trovano più, che non combaciano con se stessi, non coincidono con la loro età. Necessità dell’anatomia è un libro della giovinezza occlusa, della sua energia assediata e senza sbocco.
Prendiamo una figura
Prendiamo una figura, quella a pagina 39. C’è una giovane donna, in alto, addossata a un muro, nuda, con le mani sui fianchi. Rimane lì, diritta in piedi, sull’attenti. Sembra un soldato di fronte al superiore. Oppure un’atleta sulla piattaforma dei dieci metri: assorta, concentrata, pronta a tuffarsi. Ma c’è una barriera che glielo impedisce e la richiude in un rettangolo di ferro; c’è una barriera fuori e dentro di lei. C’è poi una scala alle sue spalle e una scala vicino ai suoi piedi, possibili vie di fuga. Ma la donna resta lì, paralizzata, con quella tensione che l’attraversa, con quelle braccia che sembrano bloccate da uno spasmo, quel suo corpo in allarme, vivo e spettrale: fascio di nervi incollato al cemento, pronto a un duello o a un’esecuzione, pronto a eseguire un ordine o a suicidarsi, pronto a qualcosa che non conosciamo. C’è poi un fascio di luce che investe la donna e rende ancora più grave la sua postura e la sua posizione, per usare un termine proprio dell’imputato. La donna rimane immobile, sotto scacco e sotto processo, in attesa di giudizio. E tutto questo conferisce all’evento qualcosa d’imminente, qualcosa di decisivo che accadrà da lì a poco o forse mai. Statua che potrebbe restare se stessa oppure, da un momento all’altro, lanciare il suo urlo. Grido che incombe, non sappiamo per quanto tempo ancora, grido trattenuto con tutte le forze.
Il grido
L’immagine del grido compresso appare più volte in Necessità dell’anatomia. E d’altra parte Il grido di Michelangelo Antonioni, ricordiamolo, è il titolo di un film molto caro all’autrice: bianco e nero rigoroso, livido e lirico, sempre sfiorato dalla possibile tragedia. Anche qui assistiamo a una rappresentazione del silenzio, o meglio del mutismo. Questi corpi di donna vagano muti tra le pareti, le sedie, gli scalini, le finestre, con la loro parola che non scaturisce, non riesce a compiere tutto il cammino necessario per giungere alle labbra. Si annida in qualche luogo segreto del corpo, come in una danza di Ariella Vidach. Oppure accelera, brucia le tappe, fuoriesce violenta in un’unica sillaba: un grido. Oppure resta lì, sulla soglia della bocca, ostruita e soffocante, come nelle terribili immagini di pagina 25 e 99. Nessuna scena di questo libro ammette il dialogo, la relazione, lo scambio delle esperienze. Tutto avviene in esilio e solitudine. Una solitudine che nessuno può interpellare: esilio introvabile, solitudine innata.
La costruzione del dolore
Nulla è più lontano da questa ricerca dell’istantanea o della foto di strada, quella che pretende di esprimere una realtà colta al volo. Qui siamo sulla riva opposta. Qui il dolore è rappresentato. Ogni figura entra in scena. Una volta in scena, comincia a separarsi, a rivelare una doppia natura. Comincia a esistere e nello stesso tempo a indicare. Costituisce una presenza e nello stesso tempo un’allusione. Ed è quest’ossimoro che la rende così originale. La scena è proprio quella: concretissima ed evidente, carica di traumi e lesioni, con un’indiscutibile verità materica. Eppure quella medesima scena, così impregnata di indizi terrestri, porta dentro di sé un emblema. Come in certe poesie di Goddfried Benn, dove un bar di Berlino con i suoi tavolini deserti diventa la solitudine del mondo. Come in certi quadri di Edward Hopper, dove l’inquadratura più realistica include, senza mai spiegarlo, il suo respiro metaforico. Così in queste pagine: senza mai spiegarlo. Mai un titolo o una chiave di lettura, mai una nota a pie’ di pagina o una parafrasi. La sofferenza si consegna senza chiarimenti: basta un accenno di troppo per appiattire la sua verità. “Un aggettivo che non aggiunge, uccide” (César Vallejo).
Le origini
Antonioni, Vidach, Benn, Hopper, Vallejo... mi rendo conto di avere fatto molti e disparati nomi... e d’altronde sono molti e disparati gli autori che si affacciano sulla ricerca di Viviana Nicodemo. Necessità dell’anatomia sembra innestarsi, più che nella storia della fotografia, in una moltitudine di eredità, esperienze e passioni. Ricordiamo quella per il Teatro, in cui l’autrice è cresciuta. E quella per la danza contemporanea, per la scultura, per la poesia. Ricordiamo il suo legame con un artista come Vincenzo Balena. E poi Rilke, la Bachmann, la Plath, tutte le voci che Viviana ha interpretato e che tornano qui, vive e scandite, sulla scena di queste immagini. C’è anche Francesca Woodman, con le sue tragiche geometrie interiori; c’è un’eredità di figure protese al racconto e all’ineffabile del racconto. Molti affluenti hanno concorso a formare questo lago ossessivo. Molte vie sono state percorse, molte vie e molte vite, per approdare a questa avventura solitaria.
Necessità di un incontro
È giunto il momento di concludere. E come sempre, per concludere, devo tornare all’inizio. Appena ho visto queste fotografie, nell’estate dell’anno scorso, ho avvertito una fratellanza, un legame antico e certo, come quando incontriamo qualcosa che ci aspetta da sempre, qualcosa che non sapevamo di attendere e che all’improvviso si manifesta in tutta la sua improrogabile evidenza. Ed è qualcosa che riguarda il dolore. Il dolore e la sua pronuncia. Qui, finalmente, viene detto il dolore. Non declamato o abbellito, ma detto. Con il pudore di chi lo conosce profondamente. Ed è raro trovare una voce che lo esprima con tanta esattezza. È una voce trafitta, una voce ustionata. Ma sa mantenere precisa la dizione, sa mantenere alta la definizione dei suoi toni, sa comporre una metrica. Il suo dolore non è uno stato d’animo evanescente o una lacrima trattenuta. È aspro ed essiccato, tagliato e tagliente. Non viene suggerito da un dettaglio emotivo. Dimora nel cuore dell’immagine, nelle sue luci contrastate, nel ruvido dei muri, nelle piastrelle sconnesse, in ogni attrito della materia. È un dolore che fa parte della visione e non ha bisogno di essere esibito. È un dolore in bianco e nero, un dolore geometrico e fondamentale. Fondamentale, ossia percepito nelle sue fondamenta. Come quella fotografia potente e misteriosa di pagina 49, quella donna spoglia che alza gli occhi al soffitto, o forse a Dio o al niente, di fronte a un cerchio vuoto sulla sua tavola.