Numero 31 - La libertà, l'arte, l'impresa
Marina Nemat
scrittrice
LIBERA DALLA PRIGIONE DEL SILENZIO
Può raccontarci la sua storia?
Sono nata a Teheran nel 1965. All’epoca, la vita in Iran era molto diversa. Quando penso alla mia infanzia, ricordo che, guardando dalla finestra, vedevo una strada molto normale, una bella strada a quattro corsie, con la gente che si fermava per fare acquisti. Io frequentavo un meraviglioso collegio per ragazze, ascoltavo i Bee Gees e ogni giovedì sera guardavo La piccola casa nella prateria. Dopo i dodici anni, incominciai a interessarmi ai ragazzi e a fare esattamente le cose che fa la maggior parte delle teen-ager: andare in spiaggia con il bikini striminzito, cenare con gli amici e ballare. Penso di avere avuto un’infanzia ideale.
Poi, la rivoluzione cambiò tutto, anche la mia vita. L’estate del 1978 ritornai dal college; c’era un carro armato accanto alla porta e io pensai: mio Dio, cos’è questo mostro? Cosa sta accadendo? C’erano soldati dappertutto e dimostranti che urlavano: “Abbasso lo Scià”, “Morte all’America”, “Morte a Israele”, morte a tutti, praticamente. Da tredicenne, non potevo capire da dove provenissero quell’odio e quella rabbia, ma erano lì, vivi, e ne avvertivi il respiro.
Al ritorno dalla scuola, improvvisamente comparvero ovunque gruppi politici. Non sapevo che ai tempi dello Scià vivessimo in una società molto chiusa, quindi non avevo idea di che cosa fossero i marxisti. Adesso erano dappertutto e vendevano i loro libri. Una ragazza di quattordici anni vedeva improvvisamente le porte del mondo aprirsi davanti a sé. La mia generazione era interessata, curiosa, eccitata quando si parlava di democrazia. Anche l’Ayatollah Khomeini al suo ritorno in Iran disse: “Vi darò la democrazia”. Ma non fu quello che ottenemmo.
Nella mia scuola gli insegnanti furono sostituiti uno dopo l’altro da ragazze fanatiche, membri delle guardie rivoluzionarie: stavo seduta sette ore in classe per nutrirmi di propaganda del governo anziché di letteratura, storia e scienze. Un giorno, alzai la mano e chiesi all’insegnante di matematica: “Perché non insegna la matematica invece della propaganda?”. Rispose: “Se non ti piace quello che insegno, vattene”. Allora, presi i miei libri e uscii, seguita dalla maggior parte della classe. Fu l’inizio di uno sciopero che durò tre giorni. Diventai una leader, ma in modo molto semplice, senza nessuna ideologia alle spalle: ero una ragazza di quattordici anni che cercava di combattere per i propri diritti. E una ragazza di quattordici anni pensa di essere invincibile. Lo pensavo anch’io, finché non vennero a prendermi per portarmi in prigione.
Tra il 1981 e il 1982 fu arrestato il novanta per cento di noi ragazzi, e non avevamo nemmeno diciott’anni. Essenzialmente, nel carcere di Evin vigeva la regola che quando ti arrestavano poi ti interrogavano. Tortura ed esecuzioni di giovani erano la normalità in quegli anni, ed è ancora così.
Eravate giovanissimi. Come avete fatto a resistere?
Cercavamo di ricordare la normalità, non parlavamo di governo, di democrazia e di libertà, ma della mamma, del papà, dei fratelli, di shopping e di feste di compleanno. Così riuscivamo a sopravvivere. Ma se anche per un solo istante avessimo lasciato andare quei pensieri, avremmo perso la testa o saremmo morti, pensando che ogni giorno qualcuno di noi veniva preso e gonfiato di botte, e non faceva più ritorno.
Ma la cosa forse più grave è che i bambini e i ragazzi, quando subiscono abusi o torture, diversamente dalla maggior parte degli adulti, che accusano l’autorità che sta abusando di loro, si riempiono di vergogna e accusano loro stessi. Noi accusavamo noi stessi: il risultato della prigione era che ci vergognavamo noi, anziché chi abusava di noi.
Evitò la condanna a morte solo sposando il suo carceriere...
Essenzialmente, si trattò di uno stupro legalizzato. Cosa può fare una diciassettenne quando il suo carceriere le dice: “Se non diventerai la mia ragazza, arresterò i tuoi genitori”? È sorprendente, ma a Evin fondamentalmente mi trovavo in due carceri: uno era rappresentato dalle mura che mi circondavano e che mi separavano dalla mia famiglia, l’altro era la prigione della mia vergogna non soltanto di essere diventata prigioniera politica ed essere stata torturata, ma anche di trovarmi in questa strana relazione, se così si può chiamare, con il mio inquisitore, con cui fui costretta a sposarmi, all’insaputa di tutti.
Fui rilasciata dopo due anni, e quando uscii dalla prigione non dissi nulla di quanto mi era accaduto: del resto, anche in occidente le donne hanno difficoltà a parlare di stupro, non è qualcosa di cui si discute in famiglia, mangiando pop-corn. Andai a casa e rimasi sbalordita che i miei genitori, la sera del mio ritorno, parlassero del tempo. La loro figlia aveva passato due anni in un carcere politico e loro parlavano del tempo! Fu allora che mi resi conto che la gente non vuole sapere. Pensavano di proteggere me, ma proteggevano loro stessi e le loro sicurezze.
Dopo il rilascio, mi sentivo una “non-persona”, che vagava intorno e faceva cose. In seguito, quando entrai in terapia, mi dissero che si trattava di stress post-traumatico che durava da vent’anni e avrebbe potuto durare per sempre.
Ora lei vive in Canada, tiene molte conferenze sul suo caso e ha pubblicato un libro, Prigioniera a Teheran, che è stato tradotto in quindici lingue.
Riuscire a parlare della mia storia in maniera coerente ha un forte impatto emotivo su di me: ciascuna volta, dopo averla raccontata al pubblico, avverto un senso di libertà e mi sento davvero bene. Mi sento anche meglio del giorno in cui mi hanno liberata. Quando sono tornata a casa non ero libera, ero ancora prigioniera del mio stesso silenzio. La donna che sono diventata oggi sa che quella prigione del silenzio è la peggiore prigione che possa esistere. È questo il motivo per cui le parole per me sono così importanti: solo scambiandoci parole possiamo scambiarci la nostra esperienza. L’anima della parola, la letteratura che trasmette l’esperienza è la parola chiave. Non sto parlando della letteratura d’impronta ideologica, ma di quella che comunica ciò che si trova nell’animo umano e ciò che può restituirci l’anima. Solo così riusciamo a mantenere la nostra libertà.