Numero 31 - La libertà, l'arte, l'impresa
Vincenzo Tagliaferri
segretario provinciale Femca CISL (Modena)
UN PATTO TERRITORIALE PER RILANCIARE L'INDOTTO
L’internazionalizzazione del distretto di Sassuolo ha prodotto problemi in termini occupazionali?
L’internazionalizzazione delle imprese del settore ceramico non è stata una delocalizzazione, come quella del tessile o del biomedicale, legata al minor costo della manodopera: realizzando articoli complicati da trasportare, le aziende ceramiche hanno avuto la necessità di produrre dove c’era il mercato, paesi dove spesso il costo del lavoro è addirittura più alto che in Italia, come per esempio gli Stati Uniti. Quindi le aziende hanno scelto di produrre in loco articoli specifici per quei mercati, diversi da quelli fatti in Italia, e spesso si è creato un effetto traino per quei prodotti di livello alto, che attualmente buona parte delle imprese produce a Sassuolo. È un risultato significativo che ha consentito alle aziende non solo di non perdere mercato e clienti, grazie alla produzione di beni a basso costo, ma anche di esportare prodotti di fascia molto più alta, sul prezzo dei quali si possono caricare le spese di trasporto.
Un altro fattore importante per il distretto è il made in Italy, che permette alle imprese che vendono soprattutto in paesi come gli Stati Uniti e la Russia di avere un margine sul prezzo di vendita fino al 20 per cento rispetto a un altro prodotto fatto dagli spagnoli o dai turchi. Per il resto, i dati parlano da soli: sugli oltre seicento milioni che si producevano in Italia, oggi all’incirca un centinaio si realizza all’estero. Da ciò deriva il calo delle produzioni locali e alcune tensioni occupazionali che si possono classificare mediamente intorno al 2 per cento annuo di perdite di posti di lavoro, con picchi che raggiungono il 4 per cento nell’ultimo periodo.
L’evoluzione del distretto ha visto grandi gruppi che in una prima fase hanno accorpato aziende più piccole e si sono internazionalizzati, prevalentemente sui mercati di Stati Uniti e Russia. A questo va aggiunto che alcune aziende fanno produrre in Cina circa due milioni di metri quadrati di piastrelle all’anno, da conto-terzisti che spesso utilizzano marchi italiani e commercializzano i prodotti nei mercati dell’Estremo Oriente, ma non è escluso che li vendano anche in Italia. Sotto questo profilo, è interessante che Confindustria Ceramica abbia creato il marchio Ceramic Tiles of Italy, che può essere adottato soltanto dagli associati che garantiscono un prodotto interamente fabbricato in Italia.
Comunque, nonostante la crescita costante del consumo di piastrelle nel mondo, l’internazionalizzazione del distretto ha comportato una riduzione sensibile della produzione, dovuta al fatto che le aziende ne trasferiscono una parte importante nei siti esteri e che nel frattempo sono cresciuti impetuosamente concorrenti come la Cina, il Brasile e la Turchia, che erodono quote di mercato significative dei produttori italiani. Questo calo, accanto alla crisi finanziaria mondiale, ha ripercussioni nell’area dell’indotto, dei conto-terzisti, che in modo silenzioso stanno progressivamente perdendo molti posti di lavoro.
Se il valore aggiunto di un distretto sta soprattutto nell’indotto, quali sono le ipotesi programmatiche perché non si perda?
Dobbiamo fare un patto territoriale, non solo per il recupero di produttività e di efficienza, ma anche di ricerca e innovazione, con un forte intreccio fra gli istituti di ricerca, le università e le scuole. Bisogna creare un centro di ricerca a Sassuolo, eventualmente finanziato dalle stesse aziende, dove si fa ricerca non solo nella produzione, ma anche nei cicli produttivi e nell’organizzazione del lavoro, con un intreccio forte con chi produce le macchine per la ceramica. Ci vuole coordinamento tra le parti, comprese le istituzioni locali, considerato anche che siamo molto penalizzati dal punto di vista delle infrastrutture.
Se si agisce in un’ottica di sistema, su alcune questioni a cui noi sindacati siamo molto sensibili, come orari di lavoro, organizzazione e flessibilità, possiamo raggiungere accordi favorevoli a tutte le aziende del distretto, in modo tale che si trovino nella stessa situazione di competitività.
C’è inoltre da considerare che il distretto si ridurrà ulteriormente, aumentando il problema occupazionale. Per questo, occorrerebbe creare le giuste sinergie fra la provincia, gli enti di formazione, i comuni e le associazioni di categoria. Poiché, per esempio, grandi aziende del settore della metalmeccanica dovranno investire nell’occupazione, potrebbero recuperare alcune figure, grazie agli ammortizzatori sociali e ai fondi per la formazione, nelle tante persone che stanno per perdere il posto di lavoro. Il patto territoriale deve monitorare il rapporto tra domanda e offerta di lavoro e creare le condizioni per uno sbocco occupazionale per coloro che sono stati espulsi da un’azienda. Così, anche la gestione delle crisi diventa meno complicata.
Quindi lei ritiene che questo distretto abbia il limite di non fare politiche industriali?
I grandi gruppi le fanno, ma ciascuno per conto proprio, mentre dovrebbero accorgersi che non sono soli e che intorno c’è un mondo di piccole aziende con quattrocento o cinquecento dipendenti, le quali, senza una politica d’insieme, non reggono più: non sono in grado di aprire una fabbrica negli Stati Uniti, ma non possono pensare neanche di poter contare solo sul mercato interno o europeo, in quanto troppo maturi. Occorrono queste politiche per permettere anche alle piccole realtà di stare in piedi, perché sono loro a dare i servizi e, in alcuni casi, a fare i prodotti per le aziende più grandi, e sono realtà che servono per avere un distretto integrato.
Sarebbe diverso se i grandi gruppi chiedessero insieme, per esempio, una maggiore rapidità nella soluzione di problemi infrastrutturali?
Con le perdite che accumulano per i costi aggiuntivi di trasporto e i disagi della viabilità, potrebbero finanziare loro stessi la costruzione di strade e ferrovie, e potrebbero addirittura guadagnarci.